Il Regalo di Natale
Non esiste solo il vino nelle Langhe. Vi sono altri tesori che spesso legano tradizioni, animali, ricordi e sensazioni in un miscuglio di fiaba e commozione.
Pietro era un buon padrone. Pretendeva molto, ma era sempre pronto a regalarci un pezzo di grissino o addirittura un dolcetto ogni volta che riuscivamo a scovare il tesoro, piccolo o grande che fosse. Sembrava burbero e ogni tanto ci sgridava, anche se non era certo colpa nostra se quell’autunno aveva piovuto così poco. Sfogava soltanto un po’ la sua delusione, ma in fondo capiva perfettamente che non ne potevamo niente. Dopo una nottata intensa di ricerca, nel freddo e nel buio, quando la fatica ci assaliva, cercavamo anche di “barare” un poco. Io avevo imparato la tecnica da Gina, più anziana ed esperta. Cominciavamo a “puntare” delle vecchie nocciole semi sepolte e guardavamo Pietro con aria di conquista. Lui sapeva benissimo che la nostra abilità non ci avrebbe mai ingannate così. Faceva comunque finta di niente. Ci mandava al diavolo, imprecando contro chi non riesce a concentrarsi e manca di professionalità, ma dopo poco ci riportava verso casa e ci dava comunque quei biscotti fatti dalla moglie (forse addirittura apposta per noi). Sapeva benissimo che quella “sceneggiata” la facevamo quando eravamo stanche. Lui fingeva di “abboccare” e di credere nella nostra buona fede. E noi avevamo la conferma che ci voleva proprio bene. Sarà stato anche per questa reciproca e silenziosa comprensione, fatto sta che quando lavoravamo lo facevamo in modo impeccabile, dando il meglio di noi stesse.
Io arrivai in cascina quando Gina era già al lavoro da parecchi anni. Mi trattò subito bene e diventammo amiche per la pelle. M’insegnò tutti i segreti del mestiere: come riconoscere l’albero migliore, come sentire il profumo in mezzo a mille olezzi a volte anche sgradevoli, come scavare senza rovinare la gemma preziosa e delicata, come riconoscere da lontano un “nero” da un “bianco”. Lei era anche in grado di intuire in anticipo il peso del prezioso dono della terra: quando scavava con maggiore ansia e affanno il risultato era sempre meraviglioso. Io cercavo di imitarla, ma non ci riuscivo, doveva essere una dote naturale.
Gina era proprio speciale. Oltre che esperta e precisa era di una bellezza sfolgorante. Alta sulle zampe camminava a fianco di Pietro come una regina. La ciocca nera che le copriva l’occhio destro le dava un tocco di nobiltà, che non avrebbe mai fatto pensare al duro lavoro che eseguiva. Io ero più tozza, provenivo dalla pianura saluzzese e non riuscivo a muovermi con la sua rapidità e scioltezza. Gina aveva trascorso l’infanzia tra le montagne che vedevano nascere il grande fiume Tanaro, lassù al confine tra Piemonte e Liguria. Sapeva benissimo come saltare tra i dirupi, infilarsi in un fosso, scalare un ripido pendio, districarsi tra i rovi senza graffiarsi.
Comunque facevamo una bella coppia. Pietro era fiero di noi. Quando ci portava a passeggio e sentiva i commenti degli amici per la strada, sorrideva leggermente e ogni tanto ci dava un colpetto sulla schiena. A volte un pezzo di grissino anche se non avevamo ancora iniziato a lavorare. E noi capivamo che qualcuno aveva fatto un apprezzamento lusinghiero nei nostri confronti. Non provai mai invidia per Gina. Era molto più bella e appariscente, ma era buona e gentile e in lei trovai molto più che un’amica. Forse aveva capito la mia durissima infanzia, quando io e mia madre fummo abbandonate da quel bastardo ingrato di mio padre. E mi trattava come una figlia, una sorella, una complice. Io pendevo dalle sue labbra in ogni momento e in ogni occasione.
L’estate era lunga e non dava molte soddisfazioni. Si lavorava comunque, se non altro per tenerci in forma e per allenarci alla vera “caccia” autunnale. Non vedevamo l’ora di cominciare e Pietro, benché indaffarato nei lavori di campagna e di vigna, ci guardava, capiva e scalpitava anche lui in trepida attesa. Ma prima doveva mettere al sicuro i suoi preziosi grappoli. Quando cominciavamo a sentire il penetrante odore del mosto, sapevamo che si avvicinava il momento dell’azione. Ancora pochi giorni e via, verso la scoperta di nuovi tesori. Anche la moglie di Pietro sembrava comprendere la nostra smania. Ci preparava dei pranzetti con i fiocchi e ci coccolava con particolare cura e attenzione. In effetti, era sempre gentile con noi. Anche quando urlava e colpiva i maschi, colleghi di cortile, che avevano combinato un guaio particolarmente grave, per noi aveva sempre una parola affettuosa. Noi guardavamo i compagni che si allontanavano con la coda tra le zampe con orgoglio e soddisfazione: eravamo un po’ “bastardine”, sicuramente, ma gioivamo della nostra posizione di prestigio.
Quell’anno arrivò un autunno umido e freddo. Le condizioni sembravano eccellenti, eppure nessuno era stato in grado di fare una buona raccolta. Nessuno, tranne Pietro e ovviamente noi con lui. Al bar ci guardavano con invidia. Capivamo il senso di certe frasi, a volte appena sussurrate. “Accidenti, quest’anno Pietro si fa i soldi! Con i prezzi che stanno raggiungendo, lui continua a non tornare a mani vuote”. “Sì, sì, ma avete visto che femmine che ha. Sono le più brave, valgono tanto oro quanto pesano. Cosa darei per comprargliele!”. “Non sperarci nemmeno. Pietro non le darebbe via nemmeno per un miliardo di lire! Formano un gruppo perfetto, una vera famiglia!”. Pietro gioiva in cuor suo, anche se non lo faceva vedere, ma si capiva da come accendeva il sigaro. Noi ci alzavamo di dieci, venti centimetri. Anch’io, la piccola Carla, la “cita” come mi chiamavano tutti, sembravo un gigante. E di notte riuscivamo a scovare quello che nessuno sarebbe mai stato capace di trovare.
Si arrivò a dicembre, all’antivigilia di Natale. Era una notte speciale. Lo sapevamo molto bene. Pietro, come suo padre, suo nonno e il padre di suo nonno conosceva una quercia fantastica che custodiva sempre un tesoro meraviglioso. Non andavano mai a disturbarla durante la stagione, ma solo poco prima della Santa Festa, forse per non essere visti. La lasciavano da parte per quel giorno così importante, sicuri che nessuno l’avrebbe mai trovata e che solo in quel momento dell’anno la maturazione dei suoi “figli” sarebbe stata perfetta. Quest’anno poi era particolarmente importante. Era il primo in cui non ci sarebbe stato il nonno di Pietro, alla cena del 24 dicembre. Era mancato qualche mese prima, stroncato da tanti anni di fatica e di duro lavoro nei campi e nelle vigne. Si era spento con serenità e dignità, in silenzio com’era vissuto, senza intralciare nemmeno in quel momento gli impegni pressanti della famiglia. Era tornato dalla sua adorata moglie, scomparsa molti anni prima, dopo una vita di amore e rispetto. Io non l’avevo mai conosciuta, ma avevo capito che doveva essere stata una donna straordinaria così come il marito.
Pietro ci fece salire come al solito in cima alla ripida collina in cui il vigneto era appena stato potato, poi attraversammo il canneto sempre più fitto e ormai quasi impenetrabile. Infine, giù per il lungo noccioleto abbandonato, invaso dai rovi. E poi eccola. Sola e maestosa, con i rami che sembravano abbracciare la notte, ma invisibile anche a breve distanza, per la sua posizione nascosta in fondo alla piccola valle che scendeva verso il torrente. Pietro si appoggiò a lei con un movimento che pareva più un abbraccio, un gesto d’affetto. Si sedette con la schiena contro il vecchio tronco nodoso, incurante del gelo. Tirò fuori dallo zaino la sua fiaschetta di grappa. Ne bevve un primo sorso per riscaldarsi. Poi un secondo, più sostanzioso, tenendolo a lungo in bocca e facendolo girare nel palato per meglio gustarlo. Si accese lentamente l’inseparabile sigaro: sembrava voler ritardare il momento dell’azione, rendere più vibrante l’attesa. Infine ci liberò. Noi scalpitavamo per l’ansia e cominciammo a correre in tondo per scaldarci. La notte era limpida e freddissima. Il terreno gelato avrebbe reso difficile la ricerca, ma non certo per noi! Il fiato si trasformava in dense colonne di fumo che sembravano ghiacciarsi istantaneamente.
Pietro ci apostrofò con finta severità: “Su, lavative, iniziate a lavorare sul serio. Non siamo venuti fin qui per giocare!” Ma lo diceva con un sorriso, ben sapendo che anche noi avevamo la sua stessa caparbietà e volontà. Bastarono pochi secondi e sentii immediatamente il profumo tanto atteso. Doveva essere anche un bell’esemplare. Prima di scavare guardai Gina con un po’ di orgoglio. Ma lei non annusava, osservava altrove, sembrava confusa e intontita. Non capii e mi fermai. La mia compagna girò la testa, annusò per aria con gli occhi che sembravano due fari nella notte. Improvvisamente, si buttò giù per la ripida scarpata che portava al torrente, infilandosi in un ammasso di rovi che avrebbe scorticato un cinghiale, ma non certo lei. Volli seguirla, ma feci il giro più lungo e la raggiunsi quando era ormai in riva al piccolo corso d’acqua. Guardava verso l’alto. Accidenti. Eravamo troppo distanti dalla quercia. Possibile che le sue radici arrivassero fin qui? Comunque se Gina aveva scelto quel posto, una ragione ci doveva essere.
Poi “la” vidi ed ebbi un brivido. Era una figura indistinta, quasi trasparente, sospesa sopra il ruscello. Non poteva essere umana, doveva essere uno spirito o qualcosa del genere. Poi intuì la verità: era una “masca”, una delle streghe delle querce di cui avevo sentito parlare tante volte dai vecchi del paese. Ebbi un attimo di terrore e sarei scappata velocemente se non avessi visto Gina, calma, risoluta, immobile, con gli occhi fissi verso l’apparizione. Mi tranquillizzai anch’io e scrutai la figura di donna che dominava la scena. Sarà stata anche una strega, ma aveva un volto buono. Ci guardava con occhi luminosi e mi sembrò di riconoscerla. Aveva dei lineamenti che non mi giungevano nuovi. Quel sorriso appena accennato e quella piega che scendeva sulle guance. Mi ricordava qualcuno. Ma sì. Ecco a chi assomigliava. A Pietro, al nostro padrone. Gina sembrò leggere nei miei pensieri ed emise un breve e roco guaito di conferma.
Era la nonna di Pietro, la moglie di quel vecchio che se ne era andato quasi in punta di piedi per non disturbare. Capii perché dicevano che era stata meravigliosa. Il suo viso irradiava luce e amore. Con un gesto amichevole e solenne indicò il terreno e poi lentamente scomparve nella notte. Gina emise un forte ululato e poi iniziò a scavare come un’ossessa. Non l’avevo mai vista così affannata. Il buco sembrava un baratro, profondo e interminabile. Poi si fermò e si accoccolò guardando verso l’alto. Pietro stava arrivando, con grande lentezza. Forse aveva visto tutto anche lui? Non lo seppi mai. Notai, però, che l’umidità della notte si era congelata sul suo volto disegnando due ghiaccioli che scendevano dagli occhi e gli arrivavano fino alla bocca semiaperta. Gina lo guardò e la fatica che aveva fatto doveva essere stata enorme. Il sudore le copriva gli occhi e si era gelato a formare due grosse gemme lucenti. Mi sentii un’intrusa ed ebbi un brivido profondo nella schiena che non era dovuto al freddo.
Passarono pochi istanti che mi sembrarono un’eternità. Pietro accarezzò Gina con la sua mano forte e grande come una pala. Una carezza diversa dal solito, quasi un dialogo silenzioso. Immerse la mano nel buco e dopo poco estrasse il gioiello più bello che avessi mai visto. Era enorme, bianco al punto che sembrava illuminare la notte. Doveva pesare almeno mezzo chilo, un chilo o forse più. Ma non aveva nemmeno importanza. Era una meraviglia indescrivibile. Pietro sollevò il tartufo verso il cielo e lo pulì sommariamente. Aveva molti solchi che lo attraversavano e uno di questi era più profondo e più nitido. Sembrava dare un’espressione a quel fungo ipogeo, a quell’esemplare stupefacente di “Magnatum Pico”. Formava un volto, un volto che sorrideva.
Tornammo a casa in silenzio, ebbri di felicità e di commozione. Dimenticai perfino di scavare dove avevo sentito quel nitido profumo pochi attimi, ore o secoli prima. Il tempo aveva perso valore e con lui tutto il resto. La notte del 24 si preparò una grande cena, impreziosita da quello stupefacente Regalo di Natale. Gina ed io mangiammo in cucina, accucciate vicino al camino. Alla fine Pietro ci dette un pezzo di tartufo bianco a testa. E nessuno della famiglia fece la minima opposizione a quel gesto così insolito.
Fu un Natale bellissimo. L’ultimo per Gina. Se ne andò una mattina di febbraio in preda alla polmonite. La trovarono dopo qualche giorno. Anch’essa non aveva voluto disturbare. Un’espressione dolce e serena le illuminava il viso. Sembrava sorridere.
Non riuscii neanche a piangere: sapevo benissimo dove era andata e con chi. Sapevo anche che il prossimo inverno avrei trovato proprio io un altro meraviglioso Regalo di Natale e sapevo anche chi me lo avrebbe indicato!
Tratto da:
“Canti eno-notturni di Langa” di Giorgio Viberti e Vincenzo Zappalà.
Arduino Sacco Editore.
5 commenti
Grazie Enzone.
L'atmosfera del Natale è magica; cosa c'è di meglio di un racconto .... fantastico da leggere davanti al caminetto mentre fuori nevica?
Lo so, lo so, tu aggiungeresti un buon bicchiere di ... barolo! Beh, perchè no?
se è di quello "buono", anche due....
Bellissimo e commovente ... e poi mio nonno (che non ebbi la fortuna di conoscere) era un "trifulau" del Roero e quindi mi è parso di rivivere qualche sua antica gesta. Grazie Enzo :-)
grazie a te Lusba!
Grazie Enzo di questo dolcissimo racconto.