Categorie: Fisica classica Relatività
Tags: cammino ottico etere interferenza Michelson-Morley misura velocità luce velocità della luce velocità della Terra vento dell'etere
Scritto da: Vincenzo Zappalà
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La scomparsa dell’etere: da Michelson ad Einstein **
Per una trattazione completa di questo argomento, si consiglia di leggere il relativo APPROFONDIMENTO nel quale è stato inserito anche il presente articolo
Dopo la favoletta della volta scorsa, non ci rimane che spiegare l’esperimento di Michelson e Morley in maniera un po’ più scientifica, utilizzando (poca) matematica e geometria.
Qualche considerazione preliminare
Non sono pochi quelli che credono che il Nobel sia stato dato all’esperimento e alle sue conclusioni, trovando ciò poco onesto, in quanto il risultato è stato, in realtà, un completo fallimento. A parte il fatto che dimostrare che non c’è bisogno di etere per trasportare le onde elettromagnetiche sarebbe già un risultato non da poco, il Nobel è stato dato SOLO a Michelson (e non a Morley che aveva collaborato alla pari nell’esperimento, portando migliorie decisive) per il metodo che aveva ideato. Utilizzare il fenomeno dell’interferenza luminosa (QUI e QUI) per misurare differenze di percorso (meglio dire “cammino ottico”) o di tempo, ben al di sotto delle possibilità degli strumenti tradizionali, ha aperto le porte a una tecnologia eccezionale, che ancora oggi viene usata in mille e una situazione. Nobel all’interferometro, perciò, e non alla scomparsa dell’etere.
Un minimo di storia
La teoria ondulatoria della luce è generalmente fatta risalire a Huygens, tra il 1678 e il 1690. Egli non poteva che assumere un’analogia fra la luce e il suono e, quindi, non poteva fare altro che pensare all’esistenza di una certa “materia” tra la sorgente della luce e l’osservatore. Non potendo certo essere lo spostamento della materia a trasportare la luce, essa, come il suono, doveva consistere in oscillazioni che si propagavano in un mezzo materiale. Nel 1802 Young ipotizzò “un etere luminifero, rarefatto ed elastico: tutte le volte che un corpo emette luce, vengono eccitate delle onde nell’etere”.
Nacque così il concetto di un etere trasportatore della luce, simile a un fluido rarefatto, elastico, senza peso, presente in tutto l'Universo. Nel 1804, ancora Young sosteneva: “... Sono disposto a credere che l'etere luminifero pervada la sostanza di tutti i corpi materiali, con resistenza piccola o nulla, forse liberamente, come il vento passa attraverso un boschetto di alberi …”
Nel frattempo, il genio di Maxwell operava la sintesi dell’elettromagnetismo, dimostrando che sia le azioni elettriche che quelle magnetiche si propagavano come onde di velocità uguale a quella della luce visibile, che ne era, quindi, un caso del tutto particolare.
L'etere diventava così la base fondamentale per le azioni elettriche e magnetiche. Qualunque cosa fosse, doveva pervadere tutto lo spazio. Lo stesso Maxwell nel 1878 scriveva: Qualunque difficoltà possiamo avere nel formare un'idea consistente della costituzione dell'etere, non ci può essere dubbio che gli spazi interplanetari e interstellari non siano vuoti, ma siano occupati da una sostanza materiale o corpo, che è certamente il più grande e probabilmente il corpo più uniforme fra quelli di cui abbiamo qualche conoscenza.”
Ma l’etere era fermo o si muoveva? Diverse erano le ipotesi… secondo alcuni, i corpi celesti potevano trascinare l'etere con sé nel loro moto in prossimità della superficie (come una specie di atmosfera). Secondo altri lo potevano fare, parzialmente, solo corpi dotati di particolari proprietà ottiche (come quelli trasparenti). Oppure, come diceva Lorentz, l'etere era a riposo. In quest'ultima ipotesi, la velocità della luce che era c rispetto all'etere, rispetto a un altro corpo in moto con velocità v nell'etere, doveva essere c +/- v, con grande soddisfazione di Galileo Galilei.
Esperimenti condotti sulla Terra con sorgenti di luce terrestri avrebbero dovuto mettere in evidenza tale cambiamento di velocità. Questo fatto equivaleva ad ammettere che, almeno per i fenomeni elettromagnetici e ottici, l'etere costituiva un riferimento assoluto. La velocità della luce con sorgenti terrestri fu proprio determinata in questo modo, utilizzando esperimenti in cui la luce percorreva una certa distanza sia in un verso che nell’altro (li vedremo tra non molto in un altro articolo sulla misura della velocità della luce). Lo stesso percorso rettilineo eseguito all’andata e al ritorno permetteva di fare la media, trascurando i termini di secondo grado in v/c.
Infatti, se d è la lunghezza del percorso, si ha che il tempo totale, tra andata e ritorno, vale:
t = d/(c + v) + d/(c – v) = d(1/(c + v) + 1/(c – v)) = d(c + v + c – v)/(c2 – v2)
t = 2d c/(c2 – v2)
Misurato il tempo, basta dividere la lunghezza totale del percorso (andata e ritorno) per il tempo percorso e si ottiene la velocità della luce a meno di un fattore del second’ordine in v/c, che può essere trascurato:
2d/t = c/(c2 – v2) = c (1 – v2/c2) ≈ c
Maxwell osservava: “Se fosse possibile determinare la velocità della luce, osservando il tempo che impiega per viaggiare tra una stazione e un'altra sulla superficie della Terra, potremmo, confrontando le velocità osservate in direzioni opposte, determinare la velocità dell'etere rispetto a queste stazioni terrestri. Però tutti i metodi con cui è possibile determinare la velocità della luce da esperimenti terrestri dipendono dalla misura del tempo richiesto per il doppio cammino da una stazione all'altra e ritorno, e l'aumento di questo tempo .... sarebbe non rilevabile”. In poche parole, bisognava essere in grado di evidenziare grandezze dell’ordine di (v/c)2.
Questo è stato il problema che Michelson decise di affrontare nel 1881 (in modo troppo “rozzo”) e nel 1887 insieme a Morley. Doveva evidenziare la differenza di velocità della luce dovuta al moto della Terra attraverso l'etere, cioè provare sperimentalmente l'ipotesi dell'etere a riposo, data per certa la sua esistenza. Per far ciò, come già detto, doveva usare un metodo sensibile a una variazione del secondo ordine di v/c. E questo metodo non poteva basarsi certo su misure dirette.
Nel 1881 disse: “La teoria ondulatoria della luce assume l'esistenza di un mezzo chiamato etere, le cui vibrazioni producono i fenomeni della luce, e che è supposto riempire tutto lo spazio… Assumendo che l'etere è a riposo, mentre la Terra si muove attraverso di esso, il tempo richiesto perché la luce passi da un punto all'altro della superficie della Terra, dipenderebbe dalla direzione in cui viaggia”. Poi proseguì, ricordando le asserzioni di Maxwell: “Fino ad ora non avevamo alcun metodo per misurare la velocità della luce che non comprendesse la necessità di far ritornare la luce sul suo cammino, per il quale motivo essa perderebbe circa tanto quanto ha guadagnato nell'andata. Poiché la differenza dipende dal quadrato del rapporto fra le due velocità, secondo Maxwell, è troppo piccola per essere misurata”.
L'idea geniale di Michelson fu di ricorrere all’utilizzo della lunghezza d’onda della luce come unità di misura, valutando i tempi attraverso la variazione di fase osservata al punto di arrivo. In altre parole, usò il fenomeno dell'interferenza, che permetteva di misurare sena problemi gli effetti del secondo ordine in v/c attraverso lo spostamento delle frange di interferenza, in funzione del cammino ottico.
Ritardare la luce
L’idea di base era quella di inviare due raggi luminosi in direzioni perpendicolari tra loro che coprissero un percorso uguale. Essi si sarebbero mossi con velocità c. Tuttavia, il raggio che si muoveva nella stessa direzione della Terra attorno al Sole avrebbe dovuto "nuotare" lungo il vento dell’etere, una volta in moto contrario e una volta a favore, mentre il raggio a 90° l’avrebbe attraversato sempre avendolo perpendicolare.
Spieghiamoci meglio. Se l’etere esisteva ed era fermo rispetto alla Terra, chi si muoveva con la Terra doveva subire un vento di etere di intensità uguale e opposta al moto della Terra. Ossia, il vento dell’etere si doveva muovere con velocità –v. All’andata, al pari del nuotatore della favola, la luce avrebbe trovato un ostacolo nel propagarsi, mentre al ritorno avrebbe avuto un aiuto. In ogni caso il tempo totale sarebbe stato maggiore di quello del “nuotatore” perpendicolare. Un cammino ottico più lungo avrebbe provocato uno sfasamento nell’onda luminosa, perfettamente misurabile attraverso il fenomeno dell’interferenza. Un’idea geniale e rivoluzionaria!
Qualche calcolo facile facile
La Fig. 1 mostra lo schema dell’esperimento.
La luce parte da O e si dirige, nel verso del moto terrestre, fino a uno specchietto S inclinato di 45°, che permette al raggio di riflettersi e di attraversarlo (specchio semiriflettente). Il raggio, ancora perfettamente in fase, si sdoppia. Una parte di esso (quello blu, riflesso) si dirige verso S1, specchio completamente riflettente, e torna indietro. Incontra nuovamente S, lo attraversa e va a formare l’immagine in F.
Il secondo raggio (rosso) prosegue verso S2, un altro specchio riflettente, e torna indietro fino a S. Si riflette e si dirige verso F.
Aver colorato in rosso e blu i due raggi è solo di aiuto al disegno, in quanto la luce inviata non cambia la propria lunghezza d’onda lungo il percorso. Nel calcolo dei tempi impiegati dai raggi non si considerano quelli relativi al tratto OS e SF, dato che sono perfettamente identici tra loro. Ci limitiamo, quindi, solo alla parte SS1S e SS2S. Le distanze SS1 e SS2 sono uguali e valgono L (ma poco cambierebbe concettualmente anche se fossero diverse).
Cominciamo con il raggio rosso. Il tempo impiegato tra andata e ritorno da S a S1, e viceversa, sembrerebbe veramente banale da scrivere:
t1 = 2 L/c
Vedremo tra poco che questa relazione, usata subito da Michelson, non è esatta e fu corretta solo in seguito.
Passiamo, momentaneamente, al raggio blu che attraversa, all’andata, lo specchio S e percorre la lunghezza L fino ad arrivare a S2, dove viene riflesso. In questo caso, dobbiamo fare entrare in azione il vento dell’etere. All’andata la velocità è data da c – v, mentre al ritorno è data da c + v (come abbiamo già visto precedentemente):
t2A= L(c – v)
t2R= L(c + v)
t2 = L/(c – v) + L/(c – v)
maneggiando un po’ la formula, come già fatto all’inizio, si ottiene:
t2 = 2L/(c2 – v2) = 2L/(c (1- v2/c2)) = 2Lγ2/c …. (1)
ponendo (guarda caso…)
γ = 1/(1- v2/c2)1/2
Ci fermassimo qui, potremmo dire facilmente che t2 > t1. Tuttavia, non possiamo dimenticare il fatto che t1 è SBAGLIATO. La ragione sta nel fatto che lo specchio S si muove con la Terra (qualcosa di simile all’orologio di luce…) alla velocità v, e il raggio che va da S a S1 è costretto a muoversi “in diagonale” sia all’andata che al ritorno. Per calcolare esattamente il tempo t1, bisogna, allora, fare intervenire il teorema di Pitagora e guardare la Fig. 2.
Si ha subito che il tempo totale t1 è dato dalla somma del tempo impiegato per arrivare da S a S1 e di quello impiegato per andare da S1 a S’ (posizione finale dello specchio S). Ma i due tempi sono uguali (la stessa cosa che capitava per il nuotatore che attraversava il fiume) e quindi il tempo totale t1 è il doppio del tempo impiegato per andare da S a S1. In poche parole, calcoliamo tM, il tempo impiegato per andare da S a S1, e poi lo raddoppiamo. Per fare ciò basta applicare il teorema di Pitagora al triangolo SS1P.
SS12 = SP2 + L2
c2tM2 = v2tM2 + L2
tM2 = L2/(c2 – v2)
tM = L/(c2 – v2)1/2
t1 = 2tM = 2L/(c2 – v2)1/2
t1 = 2L/c (1 – v2/c2)1/2
t1 = 2Lγ/c …. (2)
E’ immediato notare che t1 risulta sempre minore di t2 e quindi i tempi impiegati dai due raggi sono decisamente differenti (anche se per quantità dell’ordine di v2/c2.).
Facciamo la differenza tra i due tempi, ossia facciamo la differenza tra la (1) e la (2):
t2 – t1 = 2Lγ2/c - 2Lγ/c …. (3)
La strumentazione poteva essere ruotata, in modo che il braccio diretto verso il moto della Terra si venisse a trovare a 90° rispetto a prima e i tempi si sarebbero invertiti. In tale modo si otteneva uno sfasamento doppio. Moltiplicando per c si aveva la differenza di cammino ottico nei due casi.
Δ0 = 2Lγ2 - 2Lγ
Δ90 = 2Lγ - 2Lγ2
Dividendo la loro differenza per la lunghezza d’onda usata (giallo), si ricavava lo spostamento n delle frange di interferenza (assumendo, come già detto, un etere fermo rispetto alla Terra).
n = (Δ0 - Δ90)/λ
Nell’esperimento, la lunghezza L era di 11 metri (facendo andare avanti e indietro la luce per parecchie volte), mentre λ = 500 nm.
Ne risultava uno spostamento atteso delle frange di 0.44. Un qualcosa di estremamente ben visibile!
E, invece, niente!
Come spiegare il fallimento?
Si cercò di darne una spiegazione, ma risultò estremamente difficile. Si poteva dire che l’etere si muoveva con la Terra, ma in questo caso (come già detto QUI) si sarebbe andati contro l’aberrazione della luce. Si tentò anche con qualche via di mezzo, ma le spiegazioni risultavano prive di senso fisico. Una spiegazione più valida venne data da Fitzgerald (1889) e da Lorentz (1892), ipotizzando che le distanze si contraessero nel verso del moto. Questa contrazione la conosciamo molto bene ed è data dal fattore γ. In parole più tecniche, la lunghezza nel verso del moto terrestre sarebbe diventata:
Lc = L/γ
In verità, se andiamo a sostituire Lc al valore di L, per il tragitto nel verso del moto, la (3) diventa:
t2 – t1 = 2Lcγ2/c - 2Lγ/c = 2Lγ/c - 2Lγ/c = 0
Lo spostamento delle frange si annullerebbe proprio!
Questa ipotesi si basava sul fatto che i campi elettrostatici si deformavano quando erano in movimento. Tuttavia, a quei tempi, questa spiegazione apparve subito come una soluzione “ad hoc”, non basata su conoscenze fisiche accettabili (poco si sapeva delle forze intermolecolari). Solo Einstein, nel 1905, riuscì a distruggere questa critica, dimostrando che non vi era alcuna necessità di muoversi attraverso l’etere per avere una contrazione delle lunghezze. Bastava cambiare completamente le idee di spazio, tempo e simultaneità e descrivere la relatività ristretta, assumendo una velocità della luce costante in ogni sistema di riferimento!
Einstein distrugge l’etere e, quindi, in particolare, l’essenza fisica della contrazione. Un fenomeno dovuto solamente al sistema di riferimento. Tuttavia, come già detto altrove, l’esclusione di un mezzo che permeava tutto l’Universo non lo soddisfaceva del tutto: all’etere, in pratica, sostituì il concetto di campo, le cui equazioni descrivono lo spaziotempo attraverso la relatività generale. In qualche modo, questo concetto riporta la contrazione verso un significato nuovamente fisico.
Chi vivrà vedrà e (forse) saprà...
Volete vedere Gatto Gualtiero (con le sue fusa) che si "propaga" su Alan, mentre ci racconta il fallimento più importante della storia della Fisica? Eccolo QUI!
7 commenti
Faccio qui una domanda che mi frulla in testa da tempo in merito all'esperimento di M&M ed alla quale non riesco a dare risposta per mia ignoranza. La domanda è la seguente:
perché "il raggio che va da S a S1 è costretto a muoversi in diagonale sia all’andata che al ritorno" ?
Provo a spiegarmi meglio, spero. Siamo in relatività galileiana al tempo di M&M. Il raggio luminoso parte da O e giunge allo specchio S inclinato di 45° rispetto all'orizzontale. Colpito lo specchio, il raggio viene riflesso non in verticale ma in diagonale, in funzione della velocità di trascinamento del sistema e percorre la diagonale con velocità "c". Questo almeno era ciò che doveva vedere un osservatore "assoluto" fuori dal sistema secondo M&M ed i contemporanei dell'epoca. Chiaramente M&M, che erano "a bordo" del sistema, vedevano il raggio luminoso andare in direzione verticale ma a velocità minore di "c" anche se in modo non apprezzabile o misurabile direttamente. Tutto ciò perché secondo le leggi di Maxwell la velocità della luce e di tutte le onde elettromagnetiche è indipendente dalla velocità della sorgente O e vale sempre "c".
Perché all'epoca per la luce e le onde elettromagnetiche si accettava che la relatività galileiana non fosse valida per il calcolo del modulo della velocità ma la si dava per buona per quanto riguardava la direzione?
Il modulo della velocità non risente del trascinamento ma la direzione si?! Perché?
Non avrebbero potuto ipotizzare all'epoca che per un osservatore "assoluto" il raggio luminoso, una volta colpito S, proseguisse in verticale e per M&M, osservatori solidali con lo specchio, il raggio rimanesse "indietro" colpendo lo specchio S1 non sulla proiezione verticale ma un po' più a sinistra, dal lato di O? (un po' come il punto B' nella figura 5a della "favola dei due fotoni")
Spero di essere stato chiaro e grazie in anticipo a chi vorrà perdere del tempo nel rispondere al mio dubbio probabilmente stupido.
Scusa Alex,
ma non capisco bene il tuo problema. In ogni modo le leggi della riflessione sono sempre valide... Ho riletto il testo e mi sembra che spieghi tutto in modo esauriente. Nel caso, indicami esattamente il passaggio che ti mette in crisi...
Buongiorno Vincenzo,
la spiegazione tua va bene, è la stessa più o meno che trovo nei vari testi. Sono io che non "vedo" il perché l'esperimento debba andare così.
Provo a descrivere a parole la situazione, sperando di riuscirci e per farlo torno un po' indietro e scrivo quello che so.
Anziché due fotoni, prendiamo due palloni.
Abbiamo due calciatori gemelli A e B che calciano in modo perfettamente uguale e che fanno le veci della sorgente di luce O.
"A" calcia il pallone ad una velocità costante "v" orizzontale, il pallone colpisce la superficie della piastra S, inclinata di 45° ; il pallone viene deviato in verticale (angolo di riflessione deve essere uguale all'angolo di incidenza) con velocità sempre "v" fino a colpire la piastra S1 posta in alto ad una distanza L dal punto di impatto su S ed il pallone rimbalza quindi indietro a velocità "v" fino a colpire di nuovo la piastra S nello stesso punto.
Il tempo di andata e ritorno da S ad S1 è Ta = 2L/v
"B" in contemporanea con "A" calcia il suo pallone che viaggia orizzontale con la stessa velocità costante "v". Il pallone di B passa attraverso un bel foro nella piastra S, arriva ad S2 posta a distanza L da S e torna indietro con la stessa velocità "v" di partenza. Il tempo di andata e ritorno è di nuovo Tb = 2L/v
I due palloni lasciano la piastra S nello stesso istante e nello stesso istante vi fanno ritorno.
Ricordiamo che siamo nel 1700 e vale la relatività galileiana.
Supponiamo adesso che A e B, le piastre e tutto il resto che circonda la prova sia accomodato su un "autobus" che per un osservatore esterno E si muove di moto rettilineo ed uniforme con velocità costante "u" nella stessa direzione orizzontale di "v".
Per A e B nulla cambia, poiché, per definizione, secondo le leggi di trasformazione del moto di Galileo e Newton, tutti gli esperimenti vanno nello stesso modo, sia che noi si sia "fermi" sia che ci si muova di moto rettilineo ed uniforme. Se abbiamo due sistemi, XYZ e X'Y'Z' che si muovono di moto rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro con velocità "u" secondo X, abbiamo che le leggi di trasformazione del moto sono:
X' = X +/- u*T
Y' = Y ; Z' = Z ; T' = T
dove T è l'intervallo di tempo
Che cosa vede E?
Secondo la relatività galileiana/newtoniana, E vede i palloni che calciati da A e B viaggiano a velocità orizzontale "v+u" e vede che il pallone calciato da A, colpita la piastra S, si dirige verso l'alto ma in diagonale, sempre con velocità "v+u" la cui componente orizzontale è "u" e la componente verticale è "v".
Accade che arriva Maxwell e ci dice che la luce viaggia ad una velocità che è indipendente dal moto della sorgente e che vale sempre "c" in tutte le direzioni. La velocità della luce è un "assoluto". Se abbiamo un lampadina e stiamo correndo con velocità "u", quando accendiamo la lampadina, la luce si propagherà nello spazio con la stessa velocità "c" in tutte le direzioni, sia avanti a noi, che dietro di noi a prescindere da quanto corriamo veloci.
Se per assurdo nell'esperimento precedente A e B fossero su un autobus che si muove a velocità "c", secondo la relatività galileiana che all'epoca era ritenuta corretta, i due palloni di luce non lascerebbero mai il loro piede ed A e B capirebbero che sono in moto di velocità "c" rispetto all'assoluto etere.
Da ciò nascono tutti gli esperimenti condotti per determinare la velocità della terra rispetto allo spazio assoluto o, equivalente, il vento d'etere.
Per M&M ed i loro contemporanei, la luce che lascia la sorgente O non viaggia infatti a velocità "c+u" rispetto ad un osservatore E assoluto e solidale all'etere immobile, ma sempre a velocità "c" e rispetto ad O , cioè noi terrestri, viaggia a velocità "c-u".
La velocità della luce non risente in alcun modo della velocità della sorgente.
Ora, arriva quello che è il mio inghippo.
Supponiamo che al posto dello specchio S abbiamo due torce A e B puntate rispettivamente una verso l'alto e l'altra in orizzontale. Noi ci muoviamo nell'etere con velocità orizzontale "u".
Accendiamo contemporaneamente per un istante le due torce.
La luce che lascia la torcia B non risente del nostro moto nell'etere e viaggia in orizzontale a velocità "c" rispetto ad E e rispetto a noi a velocità "c-u" all'andata e "c+u" al ritorno, da cui le formule dell'esperimento:
Tb1 = L/(c-u) e Tb2 = L/(c+u).
La domanda ora è: la luce che lascia la torcia A invece, perché secondo M&M deve risentire del nostro moto nell'etere ed andare in diagonale rispetto all'osservatore E?
Perché la luce che lascia la torcia A si muove in direzione diagonale secondo un'ipotenusa le cui componenti sono L ed "u*Ta1" ? (Ta1 è il tempo per arrivare allo specchio S1).
Se accendo una lampadina mentre sono in movimento, l'osservatore E dovrebbe vedere una sfera di luce che si espande a velocità "c" in tutte le direzioni, mentre il portatore della luce vedrebbe la stessa sfera che si espande e si allontana dal portatore con velocità "-u".
Da come viene descritto l'esperimento di M&M invece l'osservatore E non vedrebbe una sfera di luce ma una "goccia" spostata verso "u" ... ma per quale motivo?
La luce non dovrebbe essere indipendente dal moto della sorgente come dice Maxwell?
Allora se considero lo specchio S come sorgente del raggio riflesso, perché la luce che lascia lo specchio risente della velocità dello specchio stesso nel determinare la sua direzione di moto?
Allo stesso modo, il raggio di luce "verticale" che lascia la lampadina del portatore in movimento, per un osservatore E andrebbe in diagonale secondo M&M?
Caro Alex,
ammetto innanzitutto che per te sia corretto dire che la luce che vada in senso orizzontale e in senso verticale impieghi tempi diversi (in un caso affronti direttamente l'etere , ossia contro e a favore, nell'altro l'etere agisce sempre nello stesso modo). La correzione che si deve fare, però, è il fatto che lo specchietto si muove nell'etere e quindi anche la luce che parte in un certo istante deve impiegare del tempo per incontrare S1. Questo tempo è maggiore di quello che avrebbe se tutto fosse fermo. Tutto capita come nel caso dell'orologio di luce einsteniano. Siamo d'accordo che la luce parte nello stesso momento e viaggia alla stessa velocità in tutte le direzioni, ma se il bersaglio, come la sorgente che l'ha prodotta, si allontana deve impiegare più tempo per raggiungerlo. Inoltre, il tragitto non può che essere in "diagonale", dato che lo specchietto ha dimensioni estremamente piccole e la luce DEVE comunque raggiungerlo per dar luogo a una riflessione. Di più non so dire...
Ciao Vincenzo, perdonami ma il fatto che la luce debba raggiungere lo specchio per dare origine alla riflessione non può essere usato come giustificazione per il percorso in diagonale. Esso sarebbe solo un problema tecnico della strumentazione e basterebbe costruire uno specchio più grande. Inoltre la luce è talmente veloce rispetto al moto della strumentazione che l'angolo di inclinazione rispetto alla verticale è infinitesimo ed anche uno specchietto di pochi centimetri andrebbe benissimo.
Il punto per me è concettuale ed io non ci arrivo proprio a capirlo. Colpa mia, sia chiaro.
Al tempo dell'esperimento, 1887 , la relatività di Einstein ancora doveva essere scritta.
Sono immobile nell'etere ed ho una sorgente di luce immobile con me che genera due raggi luminosi, uno orizzontale ed uno verticale, perché se invece la sorgente si muove in direzione orizzontale, secondo Michelson e gli altri fisici dell'epoca, dal punto di vista di un osservatore fermo nell'etere, il fascio di luce verticale va in diagonale?
Già all'epoca le leggi di Maxwell affermavano che le onde elettromagnetiche si propagano nello spazio alla stessa velocità "c" in tutte le direzioni, indipendentemente dal moto della sorgente.
Allora perché la traiettoria diagonale?
E' una cosa che non riesco a visualizzare, non so come spiegarlo, o la luce è indipendente dal moto della sorgente o non lo è, non può essere un po' si ed un po' no ... boh.
Comunque grazie per il tempo che hai dedicato al mio dubbio.
ultimo tentativo...
Immagina la luce che esce da una sorgente come infinite linee rette che si dirigono verso ogni direzione. Tutto è fermo. Se metto uno specchio a me verticale, quello che mi ritorna indietro è il raggio che è partito in verticale e che come tale ritorna a me. Il percorso è stato proprio di due volte la distanza dello specchio. Mettiamoci in movimento. La luce parte dalla sorgente, ma quella che viaggia in verticale NON incontra lo specchio o, se preferisci, quella che parte e torna in verticale non mi troverà più al punto di partenza. Il raggio che mi colpirà, mentre sono in moto, sarà quello che è partito con un certo angolo e che poi si è riflesso con quell'angolo, permettendogli di raggiungermi nella mia nuova posizione. Un percorso più lungo.
Grazie Vincenzo, è una delle ipotesi a cui avevo pensato.
Nei libri di testo però questo non è affatto scritto ... se fosse così, nel caso, farebbero bene a specificarlo secondo me.
Ad ogni modo non sono nemmeno sicuro sia la spiegazione giusta, perché poi nella teoria della relatività di Einstein abbiamo anche la dilatazione dei tempi per cui tutti i fenomeni fisici che per un osservatore solidale alla stanza avvengono in tempi proporzionali a 2L/c , come se tutto fosse fermo, per un osservatore esterno avvengono in tempi proporzionali a (2L/C)/[(1-(u/c)^2)^(1/2)] ... dove "u" è la velocità relativa tra i due e riguardano lo stesso raggio di luce e gli stessi eventi, compresi il battito cardiaco o la caduta di una foglia a terra.
Se il raggio che colpisce lo specchio superiore e fa su e giù tra gli specchi nell'esperimento di M&M fosse il raggio che parte in origine in "diagonale" , per dare spiegazione all'esito della prova non ci sarebbe la necessità di "dilatare i tempi" ma solo quella di "contrarre le lunghezze".
Tra l'altro se un osservatore in movimento avesse una super vista e la possibilità di vedere con i propri occhi i singoli raggi in movimento potendoli distinguere uno ad uno, si renderebbe conto che i raggio che colpisce lo specchio sopra di lui è quello partito in diagonale e capirebbe di essere in movimento. Ciò è impossibile perché non vi è modo di determinare una velocità assoluta, non esiste uno spazio assoluto e non vi è modo di capire quando un sistema è fermo o in movimento di moto rettilineo ed uniforme.
Boh, non lo so, sto pensando a ruota libera, ammetto la mia ignoranza in merito e approfitto di questo luogo di appassionati di scienza per cercare di migliorarmi.
Comunque non voglio disturbavi oltre e grazie davvero per il tempo dedicatomi.