I Racconti di Mauritius: L'IMPORTANTE E' LA SALUTE
Il caso vuole che Mauritius, molti anni fa, abbia vissuto una situazione per certi aspetti simile a quella che sta vivendo Vin-Census in questi giorni e, alla fine, ne ha tratto l'ironico e sdrammatizzante racconto che oggi vi propongo. Forza e coraggio, Enzone, vedrai che fra poco tutto passerà e tornerai in forma più smagliante che mai a farci girare la testa con Coriolis!
“Come si chiama? Intendo, di nome...”.
Piego il capo nella sua direzione, ha un viso giovane, grazioso, occhi grigi. La presa che esercita sulla mia mano è allo stesso tempo morbida e decisa.
Mi piacerebbe una risposta brillante, tipo: “Maurizio, e lei? Che fa questa sera?”
Ma l’ago sta già entrando nella piccola vena sul dorso della mia mano e faccio solo in tempo a dire il mio nome. Poi cala la notte.
Nell’acquaio della cucina si respira malissimo, che idea averci messo la testa dentro. Sento la schiuma salata che mi riempie la bocca. Che schifo! Da sopra arriva la voce di qualcuno che mi ordina di svegliarmi. E per giunta mi prende a sberle. Poi mi ricordo, l’operazione deve essere terminata.
“Riesce ad aprire gli occhi ?” E giù uno sberlone. Cara mia, se riuscissi ad aprire gli occhi la prima cosa che farei sarebbe darti un cazzotto sul muso...
Mi concentro sulla respirazione, che fatica. L’aria si rifiuta di entrare nella mia bocca e nei miei polmoni. Mugolo qualcosa, sperando che si convincano che sono vivo e mi lascino in pace. Il suono della mia voce supera la barriera di schiuma salata, ora ne riconosco l’origine, semplicemente un po' di sangue che rifluisce in gola.
Così dopo avermi infilzato con i loro aghi e affettato con il bisturi mi prendono anche a schiaffi. Sono questi i progressi della chirurgia ?
Finalmente qualcuno prende le mie difese, “Va bene, portatelo via”. Una voce maschile, con un accento da commedia napoletana, mi spiega che mi hanno messo anche un tampone esterno perche “se ne esce un poco di sangue, ma nunn’ è niente ‘e ggrave” (speriamo bene).
Il movimento è veloce, una curva, un’altra, un ascensore che sale, ancora una curva e mi ritrovo in camera, nel mio letto. Con uno sforzo enorme apro gli occhi e vedo un poco di stanza. Li richiudo subito perche mi sembra di non riuscire a respirare tenendoli aperti. Ma che fine ha fatto il mio naso ?
Qualcuno armeggia sulla mia mano sinistra per collegarmi ad una flebo. Mi provano la pressione, dicono che va bene.
Angela mi dice qualcosa che non capisco, ma faccio segno di sì per farla contenta, di solito funziona.
Poi ritorno per un po' nell’acquaio a respirare la schiuma. Il pomeriggio riscopro il mio naso, adesso sanguina decisamente e attira l’interesse del pubblico.
Arriva anche il chirurgo che sembra meno preoccupato di me. Certo, il naso mica è suo... Comunque mi dà una bella strizzata dicendo “Scusi sa, ma devo controllare...” Poi mi guarda in gola, pila alla mano, come se avesse perso qualcosa. “Va bene, va bene, l’importante è che non sia un capillare arterioso, se no in poco tempo... addio.”
Annoto mentalmente che, appena potrò, dovrò toccarmi i coglioni. Intanto mi fa sedere sul letto con una bacinella sotto il naso. Le lenzuola sono ampiamente macchiate, come anche il camicione station-wagon che mi hanno fatto mettere prima dell’operazione.
“Ecco stia così con la testa un po' in avanti, aspettiamo una decina di minuti per vedere se si ferma.”
Mi viene in mente di avere visto una scena simile raffigurata in un quadro famoso: un cerusico che pratica un salasso a non so quale personaggio storico, un principe o un re del XVIII secolo.
Finalmente i dieci minuti passano. Mi dicono che è meglio che resti in quella posizione, per sicurezza. Poi, per ancora maggiore sicurezza, mi infilano una specie di forbice a baionetta nel naso e sospingono i tamponi verso l’alto. Arrivati al cervello si fermano. Appena in tempo.
Il resto del pomeriggio scorre lentamente, nella continua conquista di un respiro dopo l’altro.
A un certo punto mi viene l’impulso di togliere flebo, tamponi, cerotti e camicione, mettermi le scarpe e tornare a casa.
Angela mi blocca come un mastino appena formulo il mio pensiero. Così mi rassegno a lasciare che il tempo lavori per me.
Ogni tanto qualcuno si interessa morbosamente delle mie funzioni fisiologiche; ragazze apparentemente normali pretendono di essere chiamate appena inizio a pisciare. Che razza di ambiente.
Finalmente, per porre fine a questo disgustoso ritornello, chiedo l’apposito attrezzo e invito la mia vescica a collaborare, cosa che fa con una certa riluttanza. Ma tanto basta, il rito è compiuto e le vestali del pappagallo si ritirano soddisfatte.
Anche il mio intestino si risveglia dall'anestesia e fa sentire la sua protesta con sequenze imbarazzanti di vibrazioni modulate in varie tonalità. Idiota, cosa fai, va bene che siamo in una stanza da soli (a parte Angela che fa parte della famiglia) ma se tornano quelle del pappagallo potrebbero voler approfondire le indagini. Perciò zitto e buono. Tornano le infermiere per cambiare le lenzuola e il mio seducente pret-a-portè. Poi passa a vedermi l’altro medico che ha partecipato all’operazione e mi concede di bere un po' d’acqua. Mi sembra una conquista enorme perché, continuando a respirare con la bocca, mi si è seccata la gola. Così bevo e scopro che faccio fatica a deglutire poche molecole d’acqua.
La notte incalza. Mando a casa Angela, con il parere del medico che mi trova in perfetta forma (evidentemente è uno che si accontenta). Resto solo e mi alzo per andare in bagno. Non posso evitare di vedermi allo specchio.
La parte migliore deve essersene andata a fare un giro mentre mi addormentavano e non è ancora tornata. Non vedo alcun sottofondo di ironia nel mio sguardo, solo l’ombra della paura.
Torno a letto ma non riesco a dormire seduto, forse se fossi un impiegato delle poste... chissà.
Torno in bagno e di colpo il mio stomaco decide di liberarsi di tutto il sangue coagulato che l’intestino non ha voluto prendere in consegna. Alè, ci mancava anche questa chicca.
Arriva l’infermiera, mi tocca spiegarle il fatto e rassicurarla. Chiacchieriamo un po' di cose varie, da ospedale. Alla fine mi offre una camomilla che accetto con signorilità.
La notte passa lenta. Mi siedo su tutto ciò che trovo in camera, tranne il televisore. Non mi piace la televisione.
Il divano sembra essere la soluzione più confortevole, mi consente di dormire per quasi dieci minuti consecutivi.
Così, di dieci minuti in dieci minuti, dormo dalle cinque alle sei. Alle sei in punto mi misurano ancora un volta la pressione e la temperatura, neanche fossi uno pneumatico da formula uno in procinto di scendere in gara. Poi arrivano sei biscotti e una tazza di tè. Ci metto quasi mezz'ora a deglutire il tutto, tra un respiro e l’altro.
Più tardi arriva Angela per riportarmi a casa. L’attesa è un poco più lunga del previsto ma finalmente vengo dimesso con le raccomandazioni del caso: dieta libera ma cibi quasi freddi, non arrabbiarsi (ma dico!), non fare lavori impegnativi, non si parla di sesso ma si capisce che è escluso.
I tamponi li dovrò sopportare per altre 60 ore, poi me li toglieranno:
“Vedrà che è una cosa da niente”.
Intanto mi accontento che mi tolgano gli ultimi aghi che ho addosso, a proposito chissà come si chiamava la ragazza dell’anestesia.
Respirando come il Cyborg di Guerre Stellari passo dall’amministrazione per gli ultimi riti burocratici e, finalmente, sono fuori.
Le 60 ore successive passano lentissime, tra lacrimazioni continue, mal di testa, difficoltà a deglutire cibi e bevande, una fastidiosa infiammazione alla bocca, postumo del trauma chirurgico, che si cura con semplici sciacqui di infuso di malva (ammesso di poter stare in apnea o di poter usare altre vie di respirazione che, escludendo le orecchie, non saprei suggerire).
Ma soprattutto queste 60 ore sono ore di veglia, non potendo sdraiarmi ma dovendo mantenere una posizione “semiassisa” (mi piacerebbe che ci provasse il medico a stare semiassiso per 60 ore).
Sono 60 ore di routines inventate per favorirne il trascorrere... Provi a farti la barba, ci vorrà pure qualche minuto... poi aiuta a tenere alto il morale e ti distrae. Certo, dopo cinque o sei volte non hai più niente da radere, hai la pelle che sembra il culo di un neonato (pulito s’intende) e cominci a dubitare che ci possa essere un solo pelo con il coraggio di tirare fuori la testa.
Poi metti le calze e cammini un poco in giro. Ti siedi, cercando di ricordare le tecniche di rilassamento del training autogeno e dello yoga, ma alla fine ti rendi conto che tutte e due si basano sulla respirazione (che stronzi). Allora ti togli le calze e torni a letto “semiassiso”. Guardi l’orologio (pura formalità perché so predire l’ora con eccellente precisione) e ti rendi conto che manca ancora un sacco di tempo alla liberazione, più tempo di quello che pensi di poter sopportare. Letture? Televisione? Internet? Ogni distrazione va bene per un poco, poi cominci a faticare a capire quello che leggi o che vedi, la testa comincia a fare male dalla nuca alle orecchie, il naso ti tormenta, la pazienza ti abbandona e cominci a chiederti perché ti sei cacciato in questa situazione, ma chi te lo ha mai chiesto?
Dopo tre notti insonni, “semiassiso” i muscoli contengono più acido lattico di una mozzarella di bufala, non ce n’è uno che non ti faccia male, soprattutto dalle spalle al collo.
Finalmente cominci a contare le ore anziché le decine di ore, poi i minuti e infine ti ritrovi in macchina, con Angela, verso la clinica.
Nella saletta d’aspetto c’è un distinto signore che comincia a raccontare dell’operazione che ha fatto qualche settimana prima. Non voglio entrare in competizione sul tema, solo che mi lascio sfuggire il fatto che non dormo da tre giorni.
Come se non avesse capito butta lì: “E ma bisogna distrarsi, io uso il computer, non c’e l’ha a casa un computer ? “
Lo guardo gelidamente, senza preoccuparmi di mascherare l’aria di compatimento che certamente mi si legge in faccia e gli dico che ne ho tre (vorrei aggiungere che forse ne prenderò un quarto da tenere in cucina più un portatile, per il bagno padronale, impermeabilizzato per usarlo sotto la doccia).
Comunque, gli spiego che in questi giorni riesco a malapena a leggere la posta elettronica, e tanto mi basta.
Angela scopre che c’è nel corridoio un signore, accompagnato dalla moglie, che ha subito lo stesso intervento (mai la parola "subìto" mi è parsa più appropriata). Anche lui è venuto a farsi togliere i maledetti tamponi. È un tipo grande e grosso, meno giovane di me (avrei potuto dire più vecchio ma non mi suona bene) con il dubbio tardivo di avere fatto una cazzata a farsi operare. Il tipo sostiene di averlo fatto perché la moglie si lamentava continuamente di sentirlo russare. Non faccio commenti che potrebbero ferirlo.
Finalmente ci fanno entrare, prima lui, poi io, e ci liberano dei tamponi. Un attimo di dolore acuto, seguito dal sollievo di sentire l’aria che ritorna e si fa strada fino al cervello, o quasi. Poi una breve attesa per svuotare la testa da tutto il sangue e il muco che si sono accumulati producendo una pressione interna insopportabile. In un angolo discreto della saletta c’è uno specchio. Mentre mi soffio il naso per l’ennesima volta mi guardo e ritrovo una fisionomia che non vedevo da qualche giorno. Mi fa piacere rivedere il mio doppio ma provo un poco di rancore per il fatto che mi ha abbandonato proprio nel momento in cui poteva essere più utile.
“Così torni adesso, a cose fatte, bravo! ”La faccia dello specchio non cerca scuse, semplicemente evita di rispondere e mi domanda:
“È vero che quello lì si è fatto operare perché russava e la moglie si lamentava?”
“Si, è così”.
“Perché non gli hai detto che era meglio che facesse operare la moglie alle orecchie anziché farsi operare, lui, al naso? Oppure poteva farsi un’amante sorda, oppure ....”
“Basta, vedo che sei in forma, tu, non sei rimasto sveglio tre notti...”
“Dai smettila di piagnucolare, andiamo a sentire la storia del tizio...” Così torno a sedermi di fronte allo sventurato “collega” e ad ascoltare le sue recriminazioni.
“Pensi che ho letto, un mese fa, di questo tipo di operazione su una rivista, ma se sapevo come era... mica la facevo.”
Gli do corda, anche perché la gente intorno sembra interessata e il mio doppio aspetta solo l’occasione per una battuta. E l’occasione arriva subito.
“Pensi”, mi dice il tizio, “che a Trieste la fanno con il laser. Costa 5 milioni.”
Mi guarda come se aspettasse un commento. Intorno ci sono un paio di signori e una ragazza, oltre alle nostre mogli. Faccio una pausa (acuisce sempre l’attenzione del pubblico), poi, come se non avessi capito bene, gli chiedo..."In quale discoteca di Trieste?". Mi guarda con la giusta espressione, una spalla perfetta, più di metà dell’effetto comico è merito suo.
Le mogli ridono, i signori e la ragazza si guardano sghignazzando e, finalmente, mi sento ridere anch’io dentro, dopo giorni e notti di digiuno.
Tutti i racconti di Mauritius sono disponibili, insieme a quelli dell'amico Vin-Census, nella rubrica ad essi dedicata
3 commenti
Passano i tempi belli,ma passano anche quelli brutti.Quelli dolorosi accelerano le emotività e rallentano il tempo.Ma tornare a casa dopo un intervento,e ritrovare gli spazi amici è sublime.Aspettiamo con impazienza che il leone riprenda il trono che gli spetta.Auguri !
Tornerà presto, caro Gianni, puoi contarci!
Anche perché deve ancora dire se la mia risposta al quiz quasi natalizio è corretta o no...
Auguri di pronta guarigione !!!