IL SUCCO DELLA COMPLESSITA’
Il racconto di Vin-Census dedicato al suo caro amico, nonché produttore di vini pregiati, "Orso di Langa" (al secolo Sergio Germano), ci fornisce lo spunto per approfondire la conoscenza della storia geologica delle Langhe e della valle della Mosella
Il presente articolo è stato inserito nella sezione d'archivio Pianeta Terra
Chi si dedica alla geologia è chiamato ad accettare un compromesso.
Un compromesso non di poco conto: assumere che alcune evidenze naturali siano la conseguenza di fenomeni apparentemente impossibili e che la realtà sensoriale possa spesso sottendere spiegazioni ben lontane dalla comune esperienza.
Osservando un paesaggio il nostro occhio cattura soprattutto forme, naturalmente mediate dai colori senza i quali tutto s’immiserisce, certo, ma sono le forme ciò che percepiamo immediatamente e che la nostra mente registra in modo più chiaro.
Nel far questo in realtà l’uomo subisce un raggiro da parte della Natura (la quale mette in campo anche altri giochetti, ben più sofisticati e sottili che i fisici si divertono a smascherare, quando vi riescono). Il tranello riesce perché fa leva sulla nostra tendenza a considerare la realtà circostante rapportandola ad un metro strettamente legato alla scala umana. Una montagna è una montagna, e su questo non v’è dubbio alcuno, ma con la medesima confidenza la nostra mente fa un ulteriore passo e assume che quella montagna c’è sempre stata, è sempre stata nel medesimo luogo ed ha sempre avuto la medesima forma.
Ed ecco confezionato il tiro mancino che la Natura, ribalda, ci ammannisce e noi, senza rendercene conto, cadiamo nella trappola.
A ingannarci è, ancora una volta, il tempo. Insomma, questo casello che ci troviamo sempre sulla strada della conoscenza è davvero importuno e principe della dissimulazione. Agostino d’Ippona se ne avvide, pur essendo lontano dai vertici di conoscenza odierni ma evidentemente assai lucido, e ci avvertì invitandoci a considerare il tempo con una certa “elasticità”, ma ancora l’avviso non sembra esserci davvero presente.
La scala dei tempi è un concetto che concorre in modo determinante a formare le fondamenta su cui si regge la geologia, e solo astraendosi dalla ridottissima scala del tempo umano è possibile aprire la porta sulla storia della Terra e sbirciarne i segreti. In estrema sintesi la geologia intende rispondere ad una semplice domanda: perché quella montagna si trova proprio lì, perché ha quella forma e perché è composta da quelle rocce (chiedo venia per questo azzardo ai colleghi geologi)?
Un quesito che appare insensato se rapportato alla stretta parentesi umana; eppure, una volta affrancati da questo vincolo mentale, si riesce a leggere ciò che abbiamo di fronte con occhio diverso. Ogni elemento dell’epidermide terrestre diviene un indizio: ogni ruga su di una parete rocciosa ha una risposta da dare alla giusta domanda, ogni gibbosità del paesaggio è testimone di una vicenda antichissima, ogni ansa di fiume racconta di una migrazione durata per milioni di anni. Un semplice sasso affiorante in un’arida distesa è ricettacolo di informazioni, che a loro volta conducono ad altri sassi, in tutto simili ma posati sul fondo di un mare e dal loro confronto nasce un possibile nesso logico: quel che oggi è mare forse ieri era deserto. Ed allora si va ancora più a fondo, si sviscera ogni dettaglio, s’acuisce l’indagine, si tenta di scoprire la Natura nelle sue più fantasiose soluzioni, anche quelle all’apparenza impossibili, appunto.
Nei villaggi alpini i tetti degli edifici più vecchi sono ricoperti con lastre di pietra, lastre strappate dalla schiena dei monti vicini. Una di quelle lastre, se sottoposta ad una forza costante e comunque disposta rispetto alle superfici della lastra, può comportarsi in due modi: si spezza o non si spezza. Altro non può fare, questo suggerisce l’esperienza. Se un osservatore rimanesse tutta la vita a sorvegliare la reazione della lastra sottoposta alla sollecitazione di una forza non sufficiente a spezzarla, nulla rileverebbe, deducendo che il lasso di tempo di applicazione di quella forza non ha prodotto alcun risultato sulla lastra.
Non è così. La roccia, se sottoposta ad una sollecitazione per un tempo sufficientemente lungo, può reagire “plasticamente”, cioè si deforma, dissipando l’energia trasmessa dalla sollecitazione tramite un lentissimo cambiamento di forma, troppo lento perché l’uomo possa apprezzarlo. Tutta la superficie terrestre testimonia questo fenomeno; i bordi delle placche crostali sono perennemente sottoposti a sollecitazioni titaniche e, esclusi i fenomeni di “rottura” che possono darsi nei casi in cui l’energia viene liberata in pochissimo tempo (i sismi), si deformano nel corso dei milioni di anni. Gli strati di roccia si piegano come le pagine di un libro (fig. 1), scorrono gli uni sugli altri, vengono lacerati, strappati, e persino capovolti. Così nascono le catene montuose, i grandiosi edifici che sembrano eterni e capaci di sfidare il tempo.
Ma il tempo vince sempre.
Pian piano l’erosione consuma e trasforma l’imponente catena in detriti, macigni, ciottoli, sabbia, limo e argilla che prima o poi finiranno nel punto più basso dove la gravità li riuscirà a portare.
Ad una causalità grandiosa seguono dunque effetti grandiosi, ed è significativo notare come tutto questo neppure sfiori l’umanità, che addipana ignara la propria storia millenaria sulle rughe della scorza terrestre.
Ma c’è di più.
Scendendo dalla grande scala delle pieghe che formano le montagne a scala molto minore si ritrova lo stesso effetto, questa volta ben visibile nella struttura di frammenti rocciosi (fig. 2). La riproposizione di strutture geometricamente simili a scale molto diverse ci fa capire che il quadro che abbiamo di fronte è “complesso”, c’è una sorta di ordine che regge tutto, tanto nell’immensamente grande come nell’estremamente piccolo, un quasi-schema che emerge in forma tanto più complessa quanto più si scende nella scala dimensionale.
L’analisi spinta fino all’estremo conferma in modo sorprendente e, oserei dire, quasi “artistico” questa interessante proprietà. I minerali che compongono le rocce, infatti, si organizzano in funzione degli sforzi a cui è sottoposto l’ammasso litoide (che a sua volta si organizza in funzione degli sforzi cui è sottoposto lo strato di appartenenza) ed ecco che lo schema torna a manifestarsi, come mostra l’osservazione al microscopio di sezioni sottili di roccia (fig. 3).
I grandiosi meccanismi che concorrono a modificare la crosta terrestre e la superficie, quindi, non solo determinano modificazioni facilmente visibili (pieghe, fratture, faglie etc.) ma incidono sulla struttura più intima delle rocce, fino ad arrivare a influenzare i minuscoli cristalli che compongono i minerali. L’influenza non è confinata alle sole caratteristiche geometriche, di forma del singolo cristallo o di orientazione nello spazio, ma anche di carattere chimico. In conseguenza del variare delle condizioni di temperatura e pressione i minerali di una roccia possono divenire chimicamente instabili ed iniziare a scambiarsi parte degli elementi che li compongono. Come coppie e quadriglie in una danza barocca si intersecano scambiandosi i partner, i minerali danno luogo ad associazioni diverse da quelle di partenza. La roccia subisce una vera e propria metamorfosi, senza necessariamente passare per fasi liquide. E’ una paziente ricerca di un nuovo stato di equilibrio fisico-chimico, che si sviluppa su tempi lunghissimi e che di fatto non si arresta mai, considerato che le sollecitazioni applicate alle masse crostali non cessano mai del tutto, pur passando attraverso periodi di parossismo (l’elevarsi di una catena montuosa, per esempio) e periodi più tranquilli, di stasi apparente (per la scala dei tempi umani). Ancora una volta va sottolineato che tanto le fasi parossistiche che quelle di “stasi” ci sono del tutto indifferenti; all’uomo sembra di assistere sempre al medesimo spettacolo: stesse battute, stessi attori, stessa piece, stesso palco, stesso teatro. Nulla cambia sotto i suoi occhi. Dedicarsi alla geologia significa riuscire a “vedere” questo spettacolo come se il tempo fosse elastico (ma non lo è davvero?) e si potesse dilatare a dismisura quello umano oppure al pari contrarre quello della Terra.
Tuttavia quanto più si arretra nel tempo tanto più lo spettacolo tende a nascondersi dietro una cortina nebbiosa che s’infittisce sempre più: le figure degli attori divengono indistinte, i loro movimenti si fanno più vaghi fino a che resta intuibile appena la trama di fondo della storia. La ragione è duplice: da una parte è la rarità di porzioni di crosta terrestre molto antiche e dall’altra è la sovrapposizione di effetti dovuti alle successive vicende geodinamiche che i pochi frammenti crostali sopravvissuti portano impressi.
UNA VECCHIA STORIA
La Mosella ha inciso la propria valle su rocce molto antiche, risalenti a circa 350 milioni di anni fa. Le ricostruzioni paleogeografiche indicano che all’epoca le terre emerse, prima suddivise in un grande continente meridionale (Gondwana) e vari altri continenti di minor estensione nell’emisfero settentrionale (Laurentia, Siberia, Baltica), convergono a formare un unico supercontinente, la nota Pangea, circondato da un solo oceano (Panthalassa). Il fenomeno di riunione di questi continenti primordiali ha comportato il serraggio delle porzioni di superficie occupate dagli oceani che dividevano i vari continenti. In particolare è stato il serraggio del ramo orientale dell’oceano Reico, esteso tra Gondwana e Laurentia a formare parte del settore continentale europeo (fig. 4).
In questo copione s’inserisce la storia delle rocce che ospitano oggi il corso della Mosella. Nei fondali dell’oceano Reico e dei vari sottobacini ad esso collegati si depositarono i materiali derivanti dall’erosione dei continenti prospicienti. Erano sedimenti di mare profondo, fini e finissimi, fanghi che si mescolarono con i resti biologici marini, formando grandi depositi di argille e limi. Il progressivo avvicinamento di Gondwana e Euroamerica spinse i fondali dell’oceano Reico a sottoscorrere alle masse continentali ma vasti brandelli sfuggirono alla stretta, ritrovandosi coinvolti nelle successive fasi parossistiche, responsabili dell’orogenesi ercinica (fig.5).
Gli antichi sedimenti e brandelli di fondo oceanico non sopravvissero però indenni. Sottoposti a condizioni di pressione e temperatura variabili in funzione della posizione rispetto alle direttrici di spinta e della profondità all’interno della crosta che andava corrugandosi, reagirono dando luogo a metamorfosi più o meno pronunciate, talora drammatiche.
Ma la storia non finisce qui.
L’evoluzione tettonica successiva passerà attraverso una ulteriore momento di parossismo, questa volta studiabile assai meglio situandosi molto più vicino a noi nel tempo: l’orogenesi alpino-hymalaiana.
L’innalzamento della catena alpina non coinvolgerà direttamente le zone già interessate dall’orogenesi ercinica, l’europa centrale rimarrà lontana dalla fascia coinvolta nell’innalzamento alpino, ma non abbastanza per non risentirne almeno in parte.
Il quadro evolutivo fin qui delineato (estremamente semplificato) è comunque soggetto a tutte le incertezze del caso, tuttora argomento di discussioni ed approfondimenti da parte degli specialisti.
Al termine di questa lunga vicenda una parte dei primordiali sedimenti di mare profondo si sono trasformati nelle rocce scistose che oggi fiancheggiano la Mosella: ardesie blu, grigie, rossastre con passate argillitiche, non di rado notevolmente arricchite in ferro (fig. 6), arenarie antiche e calcari gessosi.
La ricostruzione di eventi sviluppatisi in tempi tanto lontani e risultato di una sequenza così complicata sulla base di pochi dati utili è molto difficile. Il lavoro si regge su due pilastri metodologici: le associazioni di minerali presenti nei campioni litoidi forniscono informazioni sulle condizioni di pressione e temperatura cui le rocce sono state sottoposte; l’assetto geometrico degli strati fornisce informazioni su direzione, verso e intensità delle spinte che hanno portato alla situazione attuale. La chiave interpretativa è perciò nascosta in quella complessità da cui ha preso le mosse questo lungo discorso.
UNA STORIA RECENTE
Le Langhe piemontesi sono formate da rocce ben più giovani delle ardesie-matusalemme della Mosella: se le seconde possono vantare una strabiliante storia articolata su centinaia di milioni di anni e numerose traversie geologiche, le prime debbono accontentarsi di sfoggiare una levigata giovinezza.
Il sollevamento della catena alpina, culminato circa 32 milioni di anni fa ma iniziato 20-25 milioni di anni prima a causa della collisione tra la zolla africana a sud e quella europea a nord, ha giustapposto rocce di natura molto diversa: brandelli di crosta continentale e porzioni di fondale oceanico (fig. 7). I due costituenti, ciascuno a sua volta composto da rocce a vario grado di affinità, hanno poi subito un “mescolamento” ed una metamorfosi più o meno pronunciata, eventi trascritti nella attuale struttura della catena alpina, assai complicata. Al graduale innalzamento delle Alpi corrispose l’erosione operata dai corsi d’acqua sui versanti montuosi. Enormi quantità di detriti litoidi (massi, ciottoli, sabbie, fanghi) venivano costantemente trasportati verso le aree più basse, dove vasti delta si allargavano in una successione di bacini marini. Uno di questi bacini, occupato da un mare poco profondo, era grosso modo ubicato nel settore ove si trovano le Langhe, ed iniziò a riempirsi di sedimenti in gran parte continentali. Secondo le ricostruzioni geodinamiche, nella fase più importante del sollevamento alpino il bacino langhiano andò via via approfondendosi; gli apporti detritici continuarono a sovrapporsi fino a costituire imponenti spessori di sedimenti (svariate centinaia di metri), più grossolani nei periodi di grandi apporti e nelle zone più vicine alle coste e più fini nei periodi di deposizione tranquilla e nelle zone più lontane.
La deposizione proseguì a lungo prima di essere interrotta da altri sommovimenti dell’irrequieto quadrante alpino occidentale. Oggi le potenti sequenze sedimentarie sono ben visibili non solo nelle Langhe ma in tutta la regione basso-piemontese, con importanti differenze tra una zona e l’altra. Resta la caratteristica costitutiva generale di rocce sedimentarie formatesi dai materiali strappati ai fianchi alpini, sminuzzati, trasportati e infine lasciati al riposo sulle sponde e sui fondali marini dell’epoca. L’edificio alpino, nato da genitori così geologicamente diversi come i fondali dell’oceano Tetide e i margini continentali, ha offerto all’erosione rocce molto diverse: micascisti, quarzoscisti, rocce carbonatiche e serpentiniti per citarne solo alcune, un campionario davvero variegato.
Una complessità chimico-mineralogica che i vitigni langhiani hanno orgogliosamente onorato traducendola in una liquida sfaccettatura che lascia sempre sorpresi nel vuotare il calice, e massimamente quando si tratti di un raro riesling, raffinato dalla sapienza alchemica della vite dal patrimonio mineralogico custodito in fini livelletti arenacei e argillitici.
Quanta geologia può dormire nella trasparenza d’un vino!
4 commenti
Fantastico... ma voi due (Dany e Guido) siete sempre più diabolici. E' meglio che mi guardi le spalle... mi attaccate sempre di sorpresa!!!
Il complotto è il nostro mestiere
E' proprio così.
E pensare che lo trovai così arido il corso di mineralogia che seguii per la laurea in chimica... se ci avessero parlato di riesling...