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Scritto da: Guido Ghezzi
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ESTINZIONI AL POTASSIO **
Il presente articolo è stato inserito nella sezione d'archivio Pianeta Terra
Nuove analisi portano a ritenere probabile che esista un fattore determinante nel causare un'estinzione di massa a seguito dell'impatto con un corpo celeste, un fattore geologico finora non considerato.
"Estinzione di massa" è un'espressione ormai entrata a far parte del linguaggio comune, la causa principale della notorietà di questo particolare fenomeno è probabilmente dovuta ai dinosauri e in particolare alla loro scomparsa, avvenuta in un lasso di tempo ancora non quantificato con precisione ma di durata estremamente limitata se paragonata al lunghissimo periodo che vide la diffusa presenza di queste forme animali nell'ecosistema terrestre.
Per usare un termine di minor effetto drammatico ma più calzante alla realtà si dovrebbe parlare di "transizione biotica", cioè di un periodo temporale breve, su scala geologica, durante il quale l'ecosistema terrestre subisce uno sconvolgimento, evidenziato dalla scomparsa di una elevata percentuale di specie viventi e dalla sopravvivenza di altre, che divengono successivamente dominanti.
Un'estinzione di massa si può quindi intendere come un fenomeno di "riorganizzazione" globale della massa vivente, una riorganizzazione che avviene in modo traumatico e si manifesta in due fasi: la rapida scomparsa di un gran numero di specie a grande diffusione geografica ed il ripopolamento da parte di altre specie delle nicchie ecologiche rimaste sguarnite. Per non indurre fraintendimenti è bene specificare quale sia la connotazione quantitativa del termine "rapida" nel caso delle estinzioni di massa: un intervallo di tempo troppo breve per essere compatibile con i meccanismi della selezione evolutiva.
Un'estinzione di massa, secondo l'interpretazione più moderna, rappresenta quindi un "punto di singolarità" nello sviluppo temporale dell'evoluzione biologica, una frattura irreversibile, non l'evento terminale del declino seguente all'apice di una consolidata linea evolutiva.
La documentazione fossile, principalmente marina, ha permesso di evidenziare con soddisfacente precisione un certo numero di questi momenti di "riorganizzazione" della vita terrestre nell'arco degli ultimi 600 milioni di anni; in 5 casi si trattò di eventi particolarmente eclatanti in termini di "tasso d'estinzione", cioè di numero di famiglie biologiche estinte per milione d'anni, eventi che ebbero portata planetaria, indicati in letteratura con il termine di "grandi estinzioni di massa".
Per fare chiarezza e restituire i fenomeni alla loro giusta dimensione ed importanza occorre specificare che il "tasso d'estinzione" ha un valore numerico variabile nel tempo, su un grafico è rappresentato cioè da una sequenza di punti compresi entro una banda leggermente decrescente dal passato al presente (il tasso di estinzione di lungo termine, che normalmente accompagna l'evoluzione) da cui emergono i 5 picchi delle grandi estinzioni, o estinzioni di primo ordine (fig. 1).
Ciò significa che l'estinzione di una specie vivente è un evento del tutto normale (spesso presentato invece come un fatto drammatico), un evento che si inserisce perfettamente nel copione del grandioso spettacolo che la vita mette in scena da centinaia di milioni di anni, in cui l'uomo non è altro che una insignificante comparsa.
Un'analisi più attenta della variazione del tasso d'estinzione evidenzia però che, oltre alle cinque estinzioni di primo ordine, che comportarono la scomparsa di una percentuale di specie stimata tra il 76% e il 95%, se ne possono distinguere altre (fino a 27 secondo alcune valutazioni), meno importanti e perciò chiamate "estinzioni di secondo ordine", che non solo comportarono la scomparsa di una minore percentuale di specie, stimata tra il 33% e il 53%, ma anche una limitazione geografica del fenomeno, regionale e non planetaria, oppure limitata a specifici ambienti.
Fino a questo punto, nonostante le notevoli incertezze sugli aspetti quantitativi (in ultima analisi la stima del tasso d'estinzione ma anche l'intervallo temporale entro cui si completa l'estinzione), la vicenda della vita terrestre sembra abbastanza delineata nei suoi tratti generali. I problemi, e non pochi, emergono quando si inizia a scandagliare i dati e le loro relazioni o correlazioni, alla ricerca dei motivi delle estinzioni di massa, soprattutto di quelle di primo ordine.
E' interessante notare che fino a una quarantina di anni fa la paleontologia e la biologia evoluzionista tendevano ad interpretare le estinzioni di massa come eventi inquadrabili nel complesso meccanismo della selezione naturale. Anche a causa della difficoltà incontrata nello stabilire l'entità dell'estensione temporale dello iato nella documentazione fossile in corrispondenza delle estinzioni massive, le ricerche si focalizzarono su cause geologico-climatologiche (p. es. anossia degli ambienti oceanici) i cui effetti, cumulandosi in tempi dell'ordine del milione di anni, erano in grado di mettere in crisi interi ecosistemi.
In occasione di una campagna di ricerche finalizzata a verificare se un insolito rallentamento nel ritmo di sedimentazione potesse inficiare la stima della rapidità di estinzione, inducendo i geologi a ritenere molto veloce un'estinzione spalmata invece su tempi ben più lunghi, un certo Walter Alvarez misurò il tenore di iridio nei livelli al contatto stratigrafico Cretaceo-Terziario.
I valori misurati costrinsero ad una radicale revisione interpretativa: valori così alti della concentrazione dell'iridio, elemento quasi assente nella crosta terrestre, indicavano una provenienza extraterrestre massiva e concentrata. La gran quantità di iridio poteva essere il risultato di un apporto di provenienza cosmica lentissimo e costante?
No, non poteva essere. Per giustificare l'esistenza di un singolo livelletto ad alta concentrazione sarebbe stato necessario un lunghissimo periodo di interruzione nel tasso di sedimentazione terrestre, durante esso l'iridio cosmico avrebbe potuto depositarsi tranquillamente come cenere dopo un incendio, indisturbato e senza disperdersi nel rimescolamento con la normale sedimentazione terrigena. I calcoli indicarono in modo chiaro che l'interruzione nella sedimentazione terrestre avrebbe dovuto essere di durata superiore all'età della Terra. Ed il famigerato livelletto farcito all'iridio c'era in Italia centrale e in Danimarca.
Alvarez & C. s'erano imbattuti in qualcosa che NON stavano cercando. Qualcosa di inaspettato e dalle implicazioni notevolissime. Chi aveva portato tutto quell'iridio primigenio proprio al confine Cretaceo-Terziario? Nacque così l'ipotesi di un grande impatto con un corpo celeste. Successivamente l'iridio fu rinvenuto nelle medesime concentrazioni anomale al confine K-T (Cretaceo-Terziario) in altri siti assai distanti tra loro, tra cui la Nuova Zelanda.
Vi furono successive conferme all'ipotesi del grande impattore e in particolare una fu così eclatante da divenire un'icona: il ben noto cratere di Chicxulub (penisola dello Yucatan, Messico), la cicatrice lasciata dalla pallottola all'iridio che causò una delle cinque estinzioni di primo ordine, quella in cui, incidentalmente, trovarono la fine i dinosauri (al proposito va sottolineato che la scomparsa dei dinosauri è un aspetto marginale dell'estinzione al confine K-T, in cui sparì ben la metà delle classi di organismi marini viventi all'epoca).
La vicenda dell'iridio è di grande importanza. Per la prima volta è un agente di origine extraterrestre a influire direttamente, e a indurre modifiche irreversibili, sulla storia della vita. Ciò significa che fra le cause delle estinzioni di massa non è corretto considerare solo fenomeni geologici e soprattutto che possono darsi cause contenute entro finestre di tempo anche limitatissime: i pochi secondi di un impatto possono dar luogo a modificazioni in grado di incidere su decine, centinaia di milioni di anni di evoluzione.
A questo punto apparve lecita una domanda ritenuta prima insensata: se possono darsi cause extraterrestri e considerato che molti oggetti celesti sono plausibili candidati ad impatti con la Terra, le estinzioni di massa possono nascondere una periodicità, evidentemente legata a periodicità di natura astronomica?
Un lavoro di quasi quarant'anni fa, considerato un classico sull'argomento, evidenziò un aspetto destinato ad alimentare un fecondo confronto, ancora in corso. Nel 1984 Raup e Sepkoski2, considerando l'insieme degli eventi di estinzione proposero l'esistenza di una periodicità nel presentarsi del fenomeno, calcolata in circa 26 milioni di anni. Altre analisi giunsero a stimare periodicità leggermente diverse ma ben poco distanti dal valore calcolato da Raup e Sepkoski (QUI un resoconto preciso).
Uno stralcio delle "conclusioni" riportate dagli autori stessi illustra la portata dell'apparente periodicità individuata:
"Se la periodicità delle estinzioni nel passato geologico venisse dimostrata, le implicazioni sarebbero vaste e fondamentali. Un primo quesito è se si stia assistendo agli effetti di un fenomeno puramente biologico oppure se una periodicità nell'estinzione sia il risultato di eventi ricorrenti o cicli nell'ambiente fisico. Se l'agente rientra nelle pertinenze dell'ambiente fisico, esso riflette un processo terrestre o spaziale? E nel secondo caso si tratta di influenze solari, del sistema solare, o galattiche?"
e, poco oltre:
"Per la biologia evoluzionista le implicazioni della periodicità sono profonde. La cosa più ovvia è che il sistema evoluzionista non è isolato, nel senso che è parzialmente dipendente da influenze esterne più profonde delle variazioni locali o regionali normalmente considerate. Molto è stato scritto sull'effetto collo-di-bottiglia delle estinzioni di massa. Con tassi di soppressione del totale delle specie all'epoca viventi che si stima siano stati del 77% e del 96% per le due maggiori estinzioni, la biosfera è costretta attraverso stretti colli-di-bottiglia e il recupero da questi eventi è usualmente accompagnato da fondamentali cambiamenti nella composizione biotica. Senza queste perturbazioni, il generale corso macroevolutivo avrebbe potuto essere molto diverso."
La spallata data dai risultati sperimentali di Alvarez e dalle analisi statistiche di Raup-Sepkoski al paradigma evoluzionista è stata potente ed ha sconvolto il panorama: la storia della vita sulla Terra è legata in parte alle scorribande celesti.
Dai primi anni '80 la ricerca dei crateri da impatto terrestri ha più volte condotto ad aggiornare il loro numero grazie a migliori tecniche di rilevazione e ad approfondite indagini in situ, corroborate da analisi delle microstrutture nelle rocce circostanti. Nonostante il discreto aumento delle testimonianze di impatti di entità tale da causare effetti su scala planetaria (crateri con dimensioni superiori ai 50 km circa) non si è riscontrata una soddisfacente relazione puntuale con il numero di estinzioni di massa. I crateri con le giuste caratteristiche dimensionali generati nella medesima finestra temporale delle estinzioni sono troppo pochi.
Inoltre il principale meccanismo responsabile della distruzione biologica a seguito dell'impatto con un meteorite si ritiene che sia l'immissione in atmosfera di enormi quantità di particelle solide in grado di filtrare o bloccare la radiazione solare, interrompere la fotosintesi ed abbassare le temperature in tutto il globo. Un effetto considerato "di breve termine" e di intensità direttamente connessa alle dimensioni dell'impattore.
Le attuali possibilità di datare con considerevole precisione i crateri da impatto ed i progressi fatti dall'indagine paleontologica nel definire gli intervalli temporali delle estinzioni massive e le varie modalità con cui esse si sviluppano, hanno invece evidenziato coincidenze temporali tra episodi di estinzione e impatti "minori", cioè associati a crateri di diametro compreso tra 10 e 20 km.
Per contro la documentazione fossile non evidenzia alcun evento di estinzione pur in corrispondenza temporale con la formazione di alcuni grandi crateri da impatto. Alla luce di queste evidenze il legame tra grande impatto ed estinzione di massa non appare sistematico, è quindi lecito chiedersi se altri fattori possano contribuire a complicare la relazione impatto-estinzione, per esempio le condizioni locali della crosta terrestre nel punto della collisione potrebbero influenzare in modo determinante la catena di eventi successivi alla formazione del cratere, in particolare nel lungo termine.
In questa direzione si stanno elaborando nuove ipotesi, secondo Pankhurst, Stevenson e Coldwell (2021)3 potrebbe essere la composizione mineralogica della porzione di superficie terrestre colpita dall’impattore ad influire sui fenomeni post-impatto, ed in particolare a modificare il bilancio dello scambio termico tra radiazione solare, superficie e atmosfera.
La copertura nuvolosa è responsabile sia della riflessione della radiazione solare che dell’effetto serra, legato non solo all’entità della copertura ma anche allo spessore ed alla temperatura delle nubi. In particolare l’aumento della frazione ghiacciata in una nube ne abbassa la temperatura e ne riduce lo spessore, l’albedo diminuisce e aumenta il potere di assorbimento della radiazione infrarossa emessa dalle rocce superficiali. Il risultato è uno squilibrio tra i fattori responsabili del riscaldamento e del raffreddamento atmosferico, tanto più marcato quanto maggiore e diffusa è la presenza di nubi “fredde” nell’atmosfera.
Si stima che metà della massa di aerosol presente nell’odierna atmosfera terrestre sia composta da polvere di origine minerale che passa dalla superficie alla bassa troposfera e da questa torna alla superficie tramite le precipitazioni. La composizione mineralogica dell’aerosol è in larga prevalenza derivata dalla continua erosione della sottile pellicola di alterazione superficiale delle rocce affioranti, composta principalmente da minerali appartenenti ai fillosilicati idrati.
Una volta passate nell’atmosfera le particelle minerali fungono da nuclei di condensazione ma con efficienza differente in dipendenza della loro composizione. Alcune categorie di minerali presentano una spiccata tendenza a favorire la formazione di cristalli ghiacciati in luogo delle classiche goccioline di acqua tipiche delle nubi di bassa troposfera.
Questi minerali sono denominati K-feldspati o feldspati potassici e appartengono alla categoria dei tectosilicati, si differenziano dai fillosilicati, costituenti il tipico aerosol, per la geometria del loro reticolo cristallino, che non forma strutture planari come i fillosilicati ma strutture più marcatamente tridimensionali (fig. 2).
In occasione di un impatto significativo enormi quantità di materiali crostali vengono eiettate nell’atmosfera (QUI alcune simulazioni), dove permangono per tempi non particolarmente lunghi (mesi/anni) prima di ricadere a coprire il suolo e da qui alimentare l'aerosol atmosferico.Nel modello proposto da Pankhurst, Stevenson e Coldwell, qualora l’impatto avvenga in un settore di crosta terrestre a predominanza di rocce contenenti feldspati potassici, si formerebbe un aerosol diverso da quello tipico derivante dai fillosilicati e di conseguenza si avrebbe la formazione di nubi in gran parte costituite da particelle di ghiaccio, tanto alle quote stratosferiche quanto a quote troposferiche e per periodi sufficientemente estesi da indurre continue modificazioni climatiche (fig. 3).
Più in dettaglio, secondo questo modello, quando un grande impatto colpisce un settore di crosta terrestre a predominanza di feldspati potassici, una volta esauritosi il breve effetto di "inverno" dovuto all'enorme massa di polveri eiettate nell’atmosfera (da 10 a 1000 volte la massa totale di polvere passante in atmosfera in un anno in condizioni normali), la loro ricaduta sulla superficie forma uno spessore di particelle minerali k-feldspatiche, di conseguenza, anzichè un aerosol a composizione fillosilicatica, viene prodotto aerosol k-feldspatico che a sua volta favorisce la formazione di ghiaccio nelle nubi in luogo delle goccioline d'acqua. Anche le precipitazioni divengono più intense e frequenti a causa della estesa presenza di particelle ghiacciate nelle nubi.
Il fenomeno perdura per periodi molto lunghi, dell'ordine di 104-105 anni, prima che l'alterazione superficiale consumi lo spessore di materiali ricaduti e si ripristini il preesistente regime ad aerosol fillosilicatico. Il fenomeno agisce come un fattore destabilizzante dello stato di equilibrio (dinamico) della macchina climatica. A causa del lungo periodo dominato dalla formazione di aerosol potassico, il clima permane in una fase di instabilità di lungo termine, promuovendo una crisi globale dei rapporti ambiente-vita e la conseguente grande estinzione.
Poichè la composizione della crosta terrestre è mineralogicamente eterogenea, il fatto che un impatto avvenga in un settore caratterizzato da rocce a predominanza di k-feldspati è casuale e ciò potrebbe spiegare perchè in diversi casi non si rilevi una corrispondenza temporale tra grandi impatti ed episodi di estinzione di massa.
La fig. 4 esemplifica la relazione tra 33 crateri con diametro uguale o superiore a 10 km con datazione ritenuta affidabile e gli episodi di estinzione che hanno coinvolto la vita marina, anch'essi di datazione e intensità ben note.
La lettura combinata dei due grafici evidenzia che:
⦁ solo nella metà dei casi è riscontrabile una corrispondenza tra impatto ed estinzione;
⦁ in tutti casi in cui l'impatto ha coinvolto rocce con elevate quantità di k-feldspato sono avvenute crisi biologiche globali di elevata intensità e tanto più intense quanto maggiore il contenuto in k-feldspati.
Alla luce di questa interpretazione sembra quindi che in occasione di un impatto con un corpo celeste il contenuto in minerali k-feldspatici delle rocce crostali interessate sia di primaria importanza tra i fattori potenzialmente in grado di condurre ad estinzioni di massa, inoltre sembra che la correlazione tra estinzione di massa e dimensioni dell'impattore sia scarsa (vedi fig. 5).
Si aggiunge un altro tassello, apparentemente importante, all'enigma delle estinzioni di massa.
1 - Peters, S.E., 2008. Environmental determinants of extinction selectivity in the fossil record. Nature, 454, 626–630.
2 - Raup, D. M., J. J. Sepkoski Jr., 1984. Periodicity of extinctions in the geologic past. Proc. Natl. Acad. Sci. USA 81: 801-805 https://www.pnas.org/content/pnas/81/3/801.full.pdf
3 – Pankhurst, M. J., Stevenson, C. J., Coldwell, B. C., 2021. Meteorites that produce K-feldspar-rich ejecta blankets correspond to mass extinctions. Journal of the Geological Society, UK, 55. https://jgs.lyellcollection.org/content/early/2021/11/30/jgs2021-05
2 commenti
Ma, a parte l'iridio, mi pare che lo studio punti più sulla composizione chimica della crosta impattata che di quella delle meteoriti. Io pensavo che influisse di più sull'atmosfera il nuovo arrivato bello caldo ancor prima di toccare terra. Cioè pensavo che anche l'iridio fosse sublimato nell'atmosfera mentre l'attraversava. Va bene, faccio un reset
Sì, secondo gli autori il punto sta nelle caratteristiche mineralogiche del materiale crostale che ricade dopo l'impatto e che condiziona per lunghissimi tempi la formazione dell'aerosol, in pratica sarebbe questo fenomeno di duraturo passaggio in aerosol di k-feldspati a pesare piuttosto che l'immissione nell'atmosfera dell'iridio concentrata nell'istante dell'impatto e ricaduta a terra in un periodo dell'ordine dei mesi/anno.