Categorie: Fisica classica Relatività Storia della Scienza
Tags: campo magnetico Michael Faraday motore elettrico
Scritto da: Maurizio Bernardi
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Relativisti 4 : Faraday
Questo articolo fa parte della serie Relativisti ed è inserito in Elettromagnetismo
RELATIVISTI 4: FARADAY 30 gennaio 2021
Scritto e illustrato da Daniela
Che sia vera o meno la storia della mela che, dopo aver colpito la testa di Newton, lo avrebbe stimolato ad elaborare la sua Legge di Gravitazione Universale, resta il fatto che nel 1666 egli intuì (e dimostrò, utilizzando le leggi del moto già conosciute, tra cui quelle galileiane) che la legge fisica che aveva (forse) fatto cadere quella famosa mela sull’ancor più famosa testa, era la stessa che teneva in orbita la Luna intorno alla Terra, così come la Terra e gli altri pianeti intorno al Sole. E bravo Newton! Soddisfatto? Sì… abbastanza… ma non del tutto perché, da bravo genio qual era, oltre a descrivere con formule matematiche il moto delle mele e dei pianeti, avrebbe voluto comprendere la causa ultima di quel moto. Insomma: come diavolo riusciva il Sole a tenere legati a sé i pianeti? Di quale “sostanza” erano costituite le invisibili catene con le quali li aveva addomesticati? Non possiamo sapere se questo dubbio abbia o meno tolto il sonno a Newton, ma sappiamo che nel 1727 morì senza averlo potuto sciogliere.
“È inconcepibile che la materia bruta e inanimata possa (senza la mediazione di qualcosa di immateriale) agire e influire su altra materia senza reciproco contatto. […] Che la gravità sia qualcosa di innato, di inerente ed essenziale alla materia, sì che un corpo possa agire a distanza su di un altro attraverso il vuoto, senza la mediazione di qualche altra cosa in virtù della quale, e per mezzo della quale, l’azione a distanza o la forza possa essere trasportata da un corpo all’altro, è per me un’assurdità così grande da farmi credere che nessun uomo il quale abbia una reale consapevolezza nelle materie filosofiche possa mai farla propria. La gravità deve necessariamente essere causata da un agente il quale agisca in modo costante secondo certe leggi; ma se questo agente sia materiale o immateriale è questione che lascio decidere ai lettori” (Isaac Newton)
Poco più un secolo e mezzo dopo, al piccolo Albert bloccato a casa da un malanno, il padre Hermann Einstein regalò una bussola. Non possiamo sapere se la storia della Scienza sarebbe stata la stessa anche se Hermann avesse regalato a suo figlio dei soldatini di piombo, ma sappiamo (perché lo stesso Albert amava raccontare di quella famosa bussola, dopo essere diventato una star internazionale, decine di anni dopo) che il fascino di quelle invisibili catene che obbligavano l’ago a puntare sempre il nord incise un segno profondo nella sua infantile ma fertile immaginazione, creando le condizioni per le future geniali intuizioni che hanno cambiato la storia del progresso scientifico e tecnologico e, con essi, la nostra vita quotidiana.
In quel secolo e mezzo o poco più che separa Newton da Einstein, molti personaggi scrivono importanti pagine nel libro della Scienza ma, tra di essi, ce n’è uno che, più degli altri, può essere considerato un vero e proprio ponte tra quei due geni assoluti, risolvendo il dubbio di Newton e ponendo le basi per le intuizioni di Einstein: nacque a Londra nel 1791, morì nel 1867, diventò il più grande fisico sperimentale dei suoi tempi e di lui bisognerebbe parlare di più. Allora parliamone!
MICHAEL FARADAY non appariva certo un predestinato agli onori della Scienza, dal momento che era il terzo figlio di una famiglia poverissima e frequentò solo per poco tempo la scuola: la lasciò per volontà di sua madre, la quale non tollerava le umiliazioni a cui la maestra lo sottoponeva continuamente a causa di un difetto di pronuncia della erre. Poi, complice lo stato di indigenza della famiglia, dovette iniziare a lavorare molto presto (ma la cosa, ai suoi tempi, non era per niente strana). A tredici anni era già un valente apprendista rilegatore e di notte dedicava molto tempo a leggere alcuni dei libri che rilegava di giorno; così, notte dopo notte, si costruì da autodidatta quelle conoscenze che non aveva potuto acquisire a scuola. E, probabilmente, anche di più, avendo la possibilità di seguire i propri interessi invece di annoiarsi con programmi scolastici prestabiliti… un po’ come il giovane Leonardo da Vinci che, non potendo frequentare la scuola in quanto figlio illegittimo, vagava per i boschi intorno a casa sua, osservando con spirito critico ed intelligenza vivace tutto ciò che catturava il suo interesse (Attenzione! Ciò non costituisce un invito ad abbandonare la scuola: i casi Faraday e Leonardo non sono altro che la classica eccezione che conferma la regola. E poi, ai loro tempi, spesso la scuola non era un granché…).
Tra gli argomenti che maggiormente stuzzicavano il suo fervido intelletto, uno dei preferiti era il potere del fluido che avrebbe illuminato il futuro. Per questo non gli parve il vero quando, nel 1812, gli venne regalato un biglietto per assistere ad una conferenza che si sarebbe tenuta presso la “Royal Institution of Great Britain”, a cura del chimico Humphry Davy. Il tema era l’ELETTRICITA’ e il giovane Faraday, per non rischiare di perdersi una parola, trascorse tutto il tempo a prendere appunti. Conferenza dopo conferenza, appunti dopo appunti, l’interesse per questo campo di ricerca, appena agli albori, si fece sempre più intenso. Fu così che decise di mettere in bella copia gli appunti, rilegarli in un bel volume, e farne dono a Davy che certamente deve essere rimasto molto colpito da questo gesto, dal momento che quando, a seguito di un incidente di laboratorio che lo avevo reso temporaneamente cieco, ebbe bisogno di un assistente, si ricordò di quel giovane rilegatore e gli offrì l’occasione che per fortuna (sua e nostra) non si fece scappare, entrando a fare parte della Royal Institution, per non uscirne mai più.
Davy, infatti, una volta recuperata la vista, non ci pensò nemmeno a rispedire il ragazzo a rilegare libri, ma se lo tenne ben stretto. Certo non poteva immaginare che, da lì a poco, egli sarebbe divenuto più famoso di lui. E non poteva essere altrimenti, dal momento che quel giovane assistente aveva trovato il modo di convertire corrente elettrica in movimento meccanico continuo. In altre parole, aveva inventato il MOTORE ELETTRICO.
Chissà se, nel momento in cui chiuse il circuito elettrico, ebbe la percezione di come quell’asta di metallo che cominciò a muoversi in modo continuo nell’ampolla di mercurio, avrebbe rivoluzionato la storia dell’umanità. Fino a che punto, in quel momento e negli anni a venire, la sua immaginazione sia riuscita a fantasticare sulle future applicazioni della sua invenzione non lo sapremo mai, ma sappiamo che il principio che sta alla base del movimento di quell’asta è lo stesso che fa funzionare ventilatori e macchine da cucire, frigoriferi e lavatrici, industrie, computer, mezzi di trasporto, satelliti artificiali… riusciamo ad immaginare la nostra vita senza tutto questo?
Quando Davy si rese conto che Faraday non era più considerato il suo assistente di laboratorio, bensì la sua più importante scoperta, non la prese bene e, non potendo mandarlo via, gli assegnò un compito “importante” al solo scopo di allontanarlo dal suo campo di ricerca preferito ed evitare che la sua fama crescesse a dismisura, oscurando la propria. Fu così che Faraday trascorse quattro dei suoi migliori anni a cercare di comprendere il segreto del vetro ottico per telescopi “perfetto”, che i bavaresi proteggevano gelosamente (esagerati… neanche avessero inventato la Coca-Cola o la Nutella!). I risultati non arrivavano, ma solo dopo la morte di Davy, avvenuta nel 1829, il Nostro abbandonò finalmente la ricerca sul vetro per tornare al suo amato laboratorio e diventarne direttore. Si racconta, tuttavia, che da persona umile e semplice qual era, forse per non dimenticare quell’esperienza fallimentare, abbia conservato gelosamente un pezzetto di vetro che, molti anni dopo, si sarebbe rivelato inaspettatamente utile…
Gli anni seguenti furono particolarmente prolifici per l’attività di ricerca di Faraday, basti ricordare che, oltre a quelli del motore elettrico, scoprì, sempre in via sperimentale, i principi fisici alla base del funzionamento del TRASFORMATORE e del GENERATORE: a poco più di quarant’anni aveva rivoluzionato il suo mondo e quello venturo, forse oltre la sua stessa capacità di immaginazione, senza, peraltro, preoccuparsi di godere della ricchezza materiale che tali scoperte avrebbero potuto garantirgli. Rinunciò, infatti, a brevettarle, esattamente come, oltre un secolo dopo, fece Albert Bruce Sabin col suo vaccino per la poliomielite, grazie al quale, proprio in un anno “strano” come il 2020, quella terribile malattia è stata definitivamente sconfitta anche in Africa («Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo»).
Purtroppo, insieme ai successi scientifici arrivarono anche problemi di salute, consistenti in frequenti vuoti di memoria e conseguente depressione emotiva, ma, nonostante l’inevitabile rallentamento della sua attività in laboratorio, non cessò mai di indagare la natura di quelle “invisibili linee di forza” che si estendono nello spazio intorno ad ogni corpo magnetico, a cui lui stesso dette il nome di CAMPO MAGNETICO.
INDUZIONE ELETTRICA: un campo magnetico non genera solo una forza nei confronti dei magneti, ma anche nei confronti dei conduttori attraversati da corrente elettrica (l’animazione è ricavata dall’applet disponibile qui https://phet.colorado.edu/sims/html/faradays-law/latest/faradays-law_en.html)
Nel frattempo, perpetuò per un ventennio la tradizione delle “Christmas Lectures”, conferenze tenute ogni anno nel periodo natalizio presso la Royal Institution, lo scopo delle quali era (ed è, visto che continuano tuttora) introdurre i più giovani alla “magia” della Scienza.
Non pago dei risultati raggiunti, negli ultimi anni di vita, il vecchio e acciaccato scienziato continuò senza sosta ad indagare sulla natura delle forze invisibili che governano la natura e sulla loro supposta unitarietà. Fu allora che, dopo tanti tentativi andati a vuoto, si ricordò di quel pezzetto di vetro che aveva conservato ad eterna memoria della sua fallimentare ricerca del vetro ottico perfetto e, forse con neanche tanta convinzione ma solo per non lasciare niente di intentato, lo pose tra lo specchio e l’oculare e…
…passando attraverso il vetro, la luce polarizzata veicolava l’immagine della candela fino all’occhio di Faraday che aveva finalmente dimostrato sperimentalmente la PROFONDA UNITA’ tra ELETTRICITA’, MAGNETISMO E LUCE e spalancato le porte attraverso le quali Einstein e altri percepiranno l’interazione tra le forze dell’universo.
Ma, per quanto grandi, le sue scoperte si sarebbero lentamente dissolte nel caleidoscopio della scienza, se non avessero suscitato l’interesse di un brillante giovane di buona famiglia, rivelatosi in seguito uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi.
Stiamo parlando di JAMES CLERK MAXWELL che, affascinato dalle “invisibili linee di forza” che avevano segnato la vita di Faraday, le tradusse in equazioni, dando ufficialmente vita, nel 1855, alla TEORIA dell’ELETTROMAGNETISMO, ovvero le solide fondamenta sulle quali, mezzo secolo dopo, un giovane Einstein avrebbe iniziato a edificare il grattacielo della sua Relatività.
2 commenti
Grazie Daniela per i tuoi contributi sempre interessanti e scritti durante le "vacanze"...
Grazie a te, Giorgio, per l’interesse! Scrivere è un piacevole passatempo e lo faccio volentieri in vacanza quando ne ho l’occasione ma, ad onor del vero, questo articolo è stato scritto due anni e mezzo fa.