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Scritto da: Guido Ghezzi
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SISMI “ASTRONOMICI” **
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La sismologia è una disciplina tra le più efficaci per ottenere informazioni sulla struttura interna della Terra. E’ basata sullo studio e l’analisi dei dati sperimentali relativi alle modalità di propagazione di onde meccaniche nei materiali che compongono il pianeta, tanto nella sua porzione più superficiale (utilizzati per conoscere le condizioni della roccia o del sottosuolo destinato ad ospitare un’opera civile) quanto nelle sue porzioni più profonde, nucleo compreso.
La base concettuale è quella di studiare come l’energia, veicolata dalle onde meccaniche, si trasmette nei materiali, solidi e liquidi, che compongono l’interno terrestre. E’ necessaria una sorgente energetica “transiente”, cioè legata ad un fenomeno con una forte variabilità nel dominio del tempo, ed essa può essere artificiale (conseguenza di un’azione umana, in generale un’esplosione o una percussione) oppure naturale, dove il fenomeno scatenante è un improvviso squilibrio tra gli sforzi cui è sottoposto un volume di roccia, sforzi in generale compressivi o distensivi. La conseguenza di tale fenomeno assume la denominazione di “terremoto” o “terramoto”, per dirla con linguaggio del passato, “sisma” con terminologia più strettamente scientifica.
Benchè i principi fisici su cui la sismologia si fonda siano i medesimi, cambiano le modalità sperimentali utilizzate nel caso di indagini superficiali e di indagini profonde. La differenza tra le due modalità risiede nella quantità di energia trasmessa alla Terra, di norma molto superiore nel caso di sismi, e nelle caratteristiche dei treni d’onda che si propagano dal punto in cui si trova la sorgente energetica. Le onde meccaniche prodotte in quest’ultimo caso possono essere di vario tipo, in generale si distinguono 2 grandi categorie tipologiche: onde di volume e onde di superficie.
ONDE DI VOLUME
Si generano dalla sorgente e si propagano in tutte le direzioni attraverso il volume del mezzo circostante; a loro volta sono distinte in 2 tipologie, differenziate in base alle rispettive caratteristiche:
onde P, dal nome “primae”: onde di compressione (la direzione di propagazione dell’onda è la medesima lungo cui oscillano le particelle del mezzo sollecitato, sono dette anche “longitudinali”), si propagano tanto nei solidi che nei liquidi e, avendo velocità maggiori (7-13 km/s), sono le prime che pervengono ad un punto di misura posto sulla superficie terrestre;
onde S, dal nome “secundae”: onde trasversali (la direzione di propagazione dell’onda è perpendicolare alla direzione lungo cui oscillano le particelle del mezzo sollecitato), non si propagano nei liquidi, hanno velocità minori della onde P (circa il 60%-70% della velocità di propagazione delle onde P), quindi giungono con un certo ritardo al medesimo punto di misura.
Le onde di volume risentono della densità del mezzo in cui si propagano, che influisce, assieme ad altri parametri tipici del mezzo stesso, sulla velocità di propagazione. L’interno terrestre è costituito da volumi di materiali con caratteristiche differenti, la superficie di contatto tra tali materiali rappresenta una discontinuità lungo il tragitto delle onde meccaniche. Nell’attraversare queste interfacce le onde P perdono parte dell’energia generando nuove onde S e ulteriori onde di tipo diverso, dette “di superficie”.
ONDE DI SUPERFICIE
La denominazione non va presa alla lettera, nel senso che non si tratta di onde che si propagano SOLO all’interfaccia tra mezzi di caratteristiche molto diverse (tipicamente all’interfaccia suolo-aria o suolo-acqua) ma piuttosto di onde che viaggiano sulla superficie dell’interfaccia ma, perdendo energia esponenzialmente con la profondità, interessano solo strati sottili lungo l‘interfaccia.
E’ interessante notare che le onde di superficie si propagano con velocità inferiore alle onde di volume mentre trasportano l’energia in modo più efficace, quindi decadono su distanze maggiori, di conseguenza sismi di notevole entità possono generare onde di superficie che percorrono diverse volte l’intero globo terrestre prima di dissipare completamente la loro energia.
Come nel caso delle onde di volume le onde di superficie sono distinte in 2 tipologie:
onde di Rayleigh (indicate anche come onde R): si propagano in superficie per interferenza costruttiva tra onde P ed S, le particelle presso la superficie oscillano descrivendo ellissi con asse maggiore perpendicolare alla superficie e orientati secondo la direzione di propagazione;
onde di Love (indicate anche come onde L o G): si propagano in superficie per intersezione di onde S con la superficie stessa, sono analoghe alle onde di Rayleigh ma le particelle oscillano perpendicolarmente alla direzione di propagazione, applicando perciò al mezzo sforzi di taglio.
In occasione di un evento sismico le sollecitazioni cui è sottoposto un punto sulla superficie terrestre sono il risultato del transito dei vari tipi di onda (fig. 1).
INTERNO TERRESTRE
Le sollecitazioni (misurate su 3 componenti spaziali ortogonali X, Y e Z) possono essere registrate in funzione del tempo e dello spazio tramite reti di sismografi sparsi in superficie, le tracce ottenute, i sismogrammi, contengono una quantità di informazioni sulla natura dei materiali attraversati dai treni d’onda (fig. 2).
Benchè siano le onde P ed S a giungere prima al punto di misura, sono le più lente onde di superficie a trasportare e dissipare la maggiore quantità di energia e quindi sono gli effetti delle onde di Rayleigh e di Love a manifestarsi macroscopicamente e ad essere avvertite dall’uomo nel caso di sismi di rilevante entità.
Poiché le onde sismiche di diverso tipo viaggiano a velocità differenti ne consegue che sismogrammi relativi al medesimo sisma ma registrati in punti a diverse distanze dalla sorgente mostrano istanti di arrivo diversi per la stessa onda e di conseguenza intervalli di tempo diversi tra gli arrivi di onde di tipo diverso. La seguente fig. 3 riporta 26 tracce sismografiche (sola componente verticale) registrate il 29 marzo 2022 in 26 differenti stazioni; le tracce sono disposte da sinistra a destra in ordine di distanza crescente dalla sorgente, poi individuata nel Tirreno meridionale a circa 421 km di profondità. Spostandosi da sinistra a destra si nota il crescente intervallo temporale tra ogni arrivo dell’onda P e il corrispondente arrivo dell’onda S.
L’osservazione dei diversi tempi di arrivo a stazioni di misura sincronizzate e distribuite sul territorio a formare una “rete sismica” è il metodo base per poter realizzare un modello dell’interno terrestre a varie profondità; operazione tutt’altro che semplice poiché le variabili in gioco sono davvero tante e piuttosto ostiche da trattare.
Migliaia di terremoti hanno fornito l’energia sufficiente e scuotere la Terra quel tanto che è bastato, complici le altre discipline della geofisica, la tecnologia, l’enorme sviluppo di elettronica strumentale e informatica degli ultimi decenni, a costruire l’attuale modello dell’interno terrestre, naturalmente in continuo aggiornamento per migliorarne la rappresentatività.
La Terra, considerata al netto dell’atmosfera e semplificando all’estremo, è costituita da una serie di gusci concentrici, ciascuno dei quali distinto dagli altri in base alle proprie caratteristiche fisiche e chimico-mineralogiche. Le superfici di separazione tra i vari gusci sono definite “discontinuità” e corrispondono a interfacce interposte tra volumi con differenze eclatanti, tra cui un posto di rilievo spetta sicuramente alle discontinuità solido-liquido.
E’ opportuno sottolineare un dato, spesso non evidenziato e causa di non poche confusioni: non vi è necessariamente corrispondenza tra discontinuità di un tipo (per es. di natura chimico-mineralogica) e discontinuità di altro tipo (per es. di natura fisica); ciò significa che in realtà non è possibile schematizzare l’interno terrestre con un modello unico e semplice ma che è invece necessario indicare a quale contesto il modello si riferisce.
Un esempio: rispetto alla composizione chimica il nucleo non presenta discontinuità rilevanti, è composto principalmente da Fe (con una frazione di Ni e circa il 10% di solfuri) mentre rispetto allo stato dei materiali presenta una evidentissima discontinuità che lo suddivide in nucleo esterno, fluido ed interno, solido.
Se invece si considera un altro parametro fisico, per es. la temperatura, tra nucleo esterno ed interno non si riscontra alcuna discontinuità ma neppure una sostanziale costanza, dal momento che essa cresce gradualmente da circa 3000 °C al limite superiore del nucleo fino a circa 5000 °C al centro.
Risulta pertanto poco sensata una descrizione scolastica dell’interno terrestre che trova invece una migliore descrizione se presentato in modo “comparato” che rende almeno in parte giustizia alla grande complessità dell’intero sistema (per molti aspetti ancora da comprendere).
La figura 4 è una delle possibilità di rappresentazione, che rende abbastanza efficacemente quanto sopra.
La descrizione può essere ulteriormente arricchita prendendo in considerazione alcuni parametri di interesse prettamente geofisico. In fig. 5 sono comparate le variazioni di densità, velocità delle onde sismiche P ed S e temperatura all’aumentare della profondità: a circa 3000 km dalla superficie la densità s’innalza bruscamente passando da circa 6000 a quasi 10.000 kg/m3, profondità ove le onde S cessano di propagarsi in concomitanza con la brusca caduta di velocità delle onde P. Il dato è fondamentale ed evidenzia che tra 3000 e 5000 km di profondità la Terra è allo stato fluido, condizione in cui le onde meccaniche trasversali non possono propagarsi e che contraddistingue il nucleo esterno, dove risiede la sorgente del campo geomagnetico principale (senza il quale la vita in superficie sarebbe improbabile).
RAGGI SISMICI
La complessità dell’interno terrestre influenza il tragitto delle onde di volume e in particolare, insieme alla velocità, anche la direzione di propagazione dei fronti d’onda muta al variare delle condizioni dei materiali, soprattutto (ma non solo) in funzione della loro densità.
Le onde pertanto subiscono continue rifrazioni lungo il loro cammino, non sono rare le riflessioni in corrispondenza delle superfici di discontinuità e possono verificarsi conversioni da P a S e viceversa; tutti questi fenomeni danno luogo a onde secondarie, generalmente tanto più numerose quanto più aumentano le distanze percorse dall’onda diretta. Ricostruire i percorsi a partire da quanto viene registrato sui sismogrammi in superficie non è problema di poco conto poiché quel che si ha a disposizione è solo una forma d’onda, risultato della sovrapposizione di tutte le perturbazioni associate alla sorgente sismica.
Poiché la Terra è un mezzo eterogeneo, la ricostruzione geometrica precisa di quanto succede alle onde nell’attraversarla rappresenta un problema ostico, risolvibile solo accettando il compromesso di alcune semplificazioni.
In particolare si utilizza il “raggio sismico”. Nel caso semplice di un mezzo omogeneo e isotropo esso è un segmento perpendicolare al piano tangente al fronte d’onda e indica il percorso fatto dall’onda nell’avanzare, visualizzabile come il classico raggio di luce che attraversi uno strato di vetro; nel caso dell’interno terrestre, per effetto della continua variazione nelle 3 dimensioni delle caratteristiche dei materiali, il raggio sismico varia orientazione via via che l’onda procede assumendo nel suo insieme un aspetto curvilineo. Il risultato finale è una linea arcuata che attraversa la Terra e congiunge il punto sorgente del sisma con il punto di misura in superficie.
Una notazione internazionale ha stabilito una codifica dei percorsi sismici al fine di esplicitare in modo sintetico ed immediato la “storia” del viaggio dell’onda nella Terra; ad esempio la sigla PP indica un’onda di tipo P (quindi longitudinale) che ha viaggiato dalla sorgente verso il mantello, è risalita in superficie, è stata riflessa verso il basso ed è tornata in superficie dopo analogo tragitto. La sigla PS indica un’onda P che ha viaggiato allo stesso modo della precedente ma è stata riflessa verso il basso come onda S e come tale è tornata in superficie. Al complicarsi del tragitto del raggio sismico corrisponde un crescente numero di lettere: la sigla SKKS indica un’onda S che ha raggiunto il nucleo esterno (indicato con K), ha viaggiato entro questo sotto forma di onda P (generata da S per conversione in P all’interfaccia mantello-nucleo esterno), è stata riflessa una volta, è riemersa all’interfaccia nucleo esterno-mantello dove è stata riconvertita in onda S ed è poi giunta in superficie. La fig. 6 illustra vari percorsi con le rispettive sigle identificative e suggerisce la complessità del fenomeno che si cerca di ricostruire a partire dai sismogrammi, sia nel caso che si vogliano indagare settori limitati alle profondità crostali (o della sua porzione superficiale) o che si intendano indagare le parti più interne del pianeta.
Nella seguente figura 7a è riportato un sismogramma registrato in occasione di un forte sisma avvenuto a grande distanza dalla stazione di misura (maggiore di 2000 km, sismi del genere sono definiti “telesismi”) in cui sono facilmente distinguibili gli arrivi delle onde P, S e di superficie (Rayleigh in questo caso), notevolmente distanziati in termini di tempo a causa della grande distanza della sorgente. In figura 7b sono riportati i tragitti percorsi dalle onde e illustrati usando il metodo dei raggi sismici con le rispettive codifiche internazionali.
I RESIDUI
Localizzare un sisma significa individuare nello spazio e nel tempo il punto di origine dell’evento, il problema quindi coinvolge 4 parametri: 3 spaziali (le coordinate dell’ipocentro: X0, Y0, Z0) ed uno temporale (l’istante t0 dell’evento). I dati di partenza sono le tracce sismiche registrate in ciascun nodo della rete di sismografi (di cui sono note le coordinate spaziali) ed i tempi di primo arrivo della stessa onda in ciascun nodo.
Il problema è solo apparentemente semplice. In generale il metodo utilizzato consiste nel confrontare i tempi di arrivo OSSERVATI nelle varie stazioni della rete con i tempi di arrivo TEORICI ricavati da un MODELLO INIZIALE, che in sostanza è descritto da una distribuzione ipotizzata dei valori di velocità di propagazione dell’onda nel settore terrestre in esame.
Il confronto tra tempi di arrivo osservati e tempi di arrivo reali consta nel calcolarne la differenza, tali quantità prendono il nome di residui, valori che sono funzione dei parametri del modello di partenza. Il gioco consiste nel minimizzare i valori assunti dai residui, renderli il più piccoli possibile facendo variare i parametri del modello di partenza. Il modello descritto dai valori dei parametri che rendono minimi i residui permette infine di risalire ai valori delle coordinate dell'ipocentro X0, Y0, Z0 e dell'istante dell'evento t0.
Da un punto di vista matematico è un lavoro abbastanza impegnativo poiché, in sostanza e per usare una terminologia precisa, si tratta di risolvere un problema di “inversione non-lineare”, complicato dal fatto di dover riconoscere con precisione gli istanti dei primi arrivi sulle tracce sismiche, operazione cruciale, non sempre affidabile a metodi automatici (con buona pace dei propugnatori dell’AI…).
STRANEZZE NEL MANTELLO
L’evoluzione delle tecniche di trattamento dei dati sismici, i progressivi miglioramenti strumentali e la disponibilità di reti sismiche sempre più efficienti ed estese ha permesso di mettere a punto modelli dell’interno terrestre sempre più precisi che hanno evidenziato la notevole complessità a cui s’è fatto cenno.
Il mantello ha riservato non poche sorprese e tra queste una potrebbe avere non pochi punti di contatto con l’astronomia ed in particolare con le fasi iniziali della formazione del sistema solare.
Le elaborazioni dei dati sismici hanno evidenziato l’esistenza di enormi volumi ove i materiali del mantello più profondo, al contatto con il nucleo, presentano anomali valori di velocità di propagazione delle onde S, più bassi di quelli del mantello circostante, che potrebbero denotare materiali di presumibile differente composizione oppure materiali chimicamente omogenei ma distinti termicamente dal resto del mantello. Questa doppia possibilità è di importanza fondamentale per le ipotesi circa l’origine di queste anomalie.
Queste anisotropie sono state denominate Large Low Shear Velocity Provinces (LLSVPs), le principali sono due, si trovano “adagiate” sulla superficie di transizione tra mantello e nucleo da parti opposte, si estendono per migliaia di chilometri e si innalzano per circa 1000 km come gigantesche montagne, la più cospicua è al di sotto del continente africano e l’altra sta sotto alla zolla del Pacifico; il volume totale è stato stimato pari a circa l’8% del volume del mantello.
La ricostruzione tridimensionale restituisce una morfologia piuttosto tormentata, articolata in duomi, bacini e protrusioni, alcune delle quali si allungano fino ad attraversare parte del mantello superiore (figg. 8 e 9).
La presenza di queste enormi strutture sepolte è nota da più di 40 anni e sono tuttora oggetti piuttosto misteriosi, neppure è chiaro se e quanto la loro presenza influisca sulla geodinamica e se esista una relazione con alcune caratteristiche del campo magnetico principale, in particolare con la grande anomalia geomagnetica in corrispondenza del sud atlantico.
THEIA O NON THEIA?
Tra le ipotesi sull’origine delle LLSVPs una è notevolmente accattivante e costituisce il citato legame tra geologia e astronomia. L’idea è stata proposta qualche anno fa sulla scorta dei modelli relativi alle fasi di formazione del sistema solare ed in particolare della coppia Terra-Luna, una coppia anomala sia per la notevole massa del satellite rispetto alla Terra che per una serie di altre peculiarità nella dinamica del sistema e nella composizione chimica lunare. Considerato che le fasi immediatamente successive alla formazione dei protopianeti lasciano prefigurare significative probabilità di collisioni catastrofiche, venne proposto che la Luna si fosse formata a causa di un devastante impatto subito dalla Terra primordiale ad opera di un altro protopianeta di dimensioni simili a Marte, chiamato Theia.
Di Theia non sembra sia rimasta traccia nel sistema solare ma qualche brandello potrebbe nascondersi nell’intimo terrestre proprio sotto forma delle LLSVPs. L’idea è stata ulteriormente sviluppata da Yuan, Li ed altri che hanno pubblicato all’inizio di novembre su Nature un articolo2 dove l’impatto e le successive fasi sono state modellizzate partendo dal presupposto che le LLSVPs siano caratterizzate da un chimismo differente rispetto a quello tipico del mantello terrestre, come suggerito da precedenti lavori3.
Il catastrofico impatto avrebbe portato, nell’arco di un giorno o poco meno, alla completa fusione di Theia e della proto-Terra, nel pianeta risultante si sarebbe differenziato il mantello in due porzioni concentriche: una superiore, allo stato fuso e inglobante la maggior parte della massa del mantello di Theia ed una inferiore, solida, parzialmente intrusa dalla restante massa di Theia. Nei successivi 4,5 miliardi di anni la parte superiore del mantello terrestre si consolida assumendo un chimismo omogeneo risultante dal mantello di Theia e da quello della proto-Terra mentre i rimasugli delle intrusioni solide nel mantello inferiore sprofondano fino ad adagiarsi sull’interfaccia nucleo-mantello sotto forma delle attuali LLSVPs (fig. 10).
E’ interessante notare che la simulazione numerica evidenzia la formazione di strutture torreggianti termicamente anomale rispetto al mantello (chiamate “plume”), strutture da tempo evidenziate dagli studi geofisici della Terra profonda (riscontrabili anche in fig. 8).
L’ARES DORMIENTE
Le indagini sismologiche, seppure con importanti limitazioni, costituiscono un metodo utilizzabile anche in ambiti extraterrestri, quali la Luna o Marte. La realizzazione e la gestione di una vera e propria rete sismica al di fuori della Terra non è al momento attuabile ma i dati resi disponibili da singole stazioni sismiche permettono ugualmente di ricavare utili informazioni.
Dal maggio 2018 e fino al 2022 i 2 sismografi della missione InSight (Interior Exploration using Seismic Investigations, Geodesy and Heat Transport) hanno registrato più di 1300 sismi su Marte, la grande maggioranza di questi è stata ricondotta ad impatti meteorici, la restante parte è stata originata dal grande sistema di faglie attive della regione “Cerberus Fossae”.
Il 4 maggio 2022 si è verificato un sisma “storico”, denominato S1222a. Il sisma è stato notevolmente più violento di tutti gli altri, la grande energia liberata ha determinato un ottimo rapporto tra segnale e rumore di fondo, quest’ultimo piuttosto elevato a causa dei forti venti che sovente spirano su Marte, ciò ha permesso di riconoscere importanti dettagli e in particolare di distinguere in modo chiaro la propagazione delle onde di volume, delle onde di Rayleigh e, per la prima volta, delle onde di Love (fig. 11).
Per la prima volta sono state rilevate anche onde R2 e R3, con un ulteriore sospetto di onde di Rayleigh che hanno percorso fino a 3 volte il giro completo del pianeta (fig. 12).
La localizzazione è stata effettuata basandosi su un modello ipotetico dell’interno marziano, tarato utilizzando registrazioni di precedenti sismi prodotti da impatti asteroidali di cui si è potuto individuare con certezza il cratere tramite osservazioni visive. La bontà di tali conferme ha fornito una solida parametrizzazione del modello di riferimento, che ha permesso infine di localizzare S1222a (fig. 13).
L’epicentro di S1222a è notevolmente spostato rispetto agli epicentri dei sismi connessi al grande sistema di fratture crostali di Cerberus Fossae, risalente a circa 5 milioni di anni fa, ciò suggerisce la possibilità che la sorgente sia di tipo differente, considerate anche le notevoli similarità con altri recenti 2 sismi molto energetici ma rivelatisi poi esser conseguenze di impatti asteroidali.
Un’accurata indagine visiva ad alta risoluzione mirata sull’area epicentrale ha escluso la connessione con un impatto asteroidale: nessun nuovo cratere o altra traccia ascrivibile ad un impatto (ad es. sollevamento di nubi di polveri) sono apparsi nel settore dopo il sisma che pertanto è ritenuto esser stato di origine tettonica1.
Il confronto con l’altimetria del settore mostra che l’epicentro ricade in prossimità della lineazione planetaria che separa l’emisfero rilevato da quello depresso di Marte, i due domini della nota “dicotomia crostale” marziana (fig. 14).
La stima dei valori delle velocità di propagazione delle onde sismiche che hanno percorso l’intero pianeta, combinata con misure di tipo gravimetrico, ha evidenziato una minima differenza di densità media crostale tra i due emisferi, non superiore a circa 200 kg/m3 ed uno spessore crostale globale medio compreso nell’intervallo 42-56 km (ben superiore a quella terrestre, circa 24 km, e a quella lunare, tra 34 e 43 km), restringendo notevolmente il campo di variabilità risultante dalle precedenti valutazioni.
La piccola differenza di densità media tra i due emisferi comporta una rilevante differenza di spessore crostale, dell’ordine dei 30 km, condizione che influisce sull’evoluzione termica del pianeta. I modelli che intendono riprodurre modalità di produzione e dispersione del calore planetario, una volta ritarati sui nuovi valori di densità e di spessore della crosta marziana, indicano che una percentuale compresa tra il 50% ed il 70% del calore totale prodotto dal pianeta dev’essere di origine crostale, dovuto ad una concentrazione di nuclei radioattivi (Th, K e U) superiore a quella stimata in precedenza. Il grande accumulo di calore potrebbe perciò determinare l’attuale esistenza di volumi allo stato fuso in profondità.
La conferma del grande spessore della crosta marziana sembra sufficiente a non permettere una dinamica crostale di tipo terrestre, organizzata a grandi placche che si spostano, si frammentano e si saldano come tessere di un mosaico in continuo divenire. Alcune regioni mostrano evidenze di fratturazioni profonde (come il sistema delle Valles Marineris) che lasciano ipotizzare un’antica linea di contatto tra due placche, ma ciò, anche se confermato, permetterebbe di riconoscere alla crosta del pianeta rosso un esiguo numero di zolle tettoniche, fermo restando che l’ipotesi oggi più plausibile è quella di un pianeta con una crosta sostanzialmente continua.
Marte è insomma un “Ares dormiente”, come l’immaginò Botticelli.
- https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1029/2023GL103619
- https://www.nature.com/articles/s41586-023-06589-1
- https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/2016GC006605
- https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1029/2022GL101543
- https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1029/2023GL103482
5 commenti
Una trattazione veramente unica e completa. Non dovrei, forse, ma non posso che applaudire Guido pubblicamente e ringraziarlo!
Grazie a te, Enzo.
Lettura impegnativa, ma molto interessante. Piena di argomenti e informazioni che non conoscevo, anzi che neanche sapevo di non sapere.
Due curiosità venute con la lettura.
Se la formazione delle LLSVP è dovuta all'impatto con Theia, c'è una spiegazione della formazione di due LLSVP invece di una connessa al punto d'impatto?
Ci sono ipotesi sulla origine della "dicotomia crostale" di Marte?
Grazie Guido.
Gli autori hanno effettuato una modellizzazione idrodinamica dell'impatto e il risultato è di due LLSVP, del resto l'impatto ipotizzato è da considerarsi un fenomeno di "fusione" di 2 corpi celesti piuttosto che un semplice impatto puntuale del tipo asteroide-Terra. E' stata, se c'è stata davvero Theia, una vera e propria ridistribuzione integrale dei materiali primordiali di Theia e della proto-Terra.
Le ipotesi che conosco sulla dicotomia crostale marziana sono:
risalita del mantello verso la superficie dalla parte opposta rispetto all'area di impatto con un grande corpo asteroidale. L'impatto avviene nell'emisfero N (quello con la odierna crosta sottile) dove la crosta viene escavata, il mantello viene sospinto verso S ove si rigonfia e si fonde parzialmente per effetto della ridistribuzione del calore, poi si raffredda e contribuisce all'ispessimento anomalo della crosta S;
impatto avvenuto nell'emisfero S, con fusione parziale della crosta originaria e ricristallizzazione per raffreddamento di nuova crosta ispessita dal contributo fornito dai materiali dell'impattore;
origine totalmente endogena (quindi niente impatto) legata ad una complesso fenomeno di convezione nel mantello estesa su scala planetaria, con metà del mantello ospitante una risalita di materiale e la metà opposta una discesa di materiale. Marte si sarebbe via via raffreddato in uno stato di squilibrio dei moti convettivi nel mantello che avrebbe determinato la dicotomia.
Che io sappia nessuna ipotesi è stata ritenuta del tutto convincente.
Lascio la parola ad Enzo.....
Infanzia movimentate per questi pianeti!
Guido grazie per l'articolata risposta.
Fabrizio