Categorie: Racconti di Vin-Census
Tags: indiani slot canyon Utah
Scritto da: Vincenzo Zappalà
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Il richiamo
Paul Sandstone era un giovane etologo e si dedicava ai suoi studi sugli animali con passione, intelligenza e perseveranza. Sebbene non ancora quarantenne aveva già al suo attivo ricerche fondamentali sulle relazioni sociali dei Coyote e sulle strategie di caccia e di difesa dei Coguari. Aveva anche definito e predisposto un test particolare per identificare il futuro maschio dominante nei branchi di daini di montagna. Ma provava anche una passione smisurata per le escursioni nei deserti e nelle gole rocciose degli altopiani dello Utah meridionale. Quelle dune di sabbia solidificata, dai mille colori e dalle forme più strane, lo attiravano come niente al mondo. “Le rocce più belle della Terra”, diceva tra sé e sé, ed aveva la fortuna di potersi immergere tra loro in una pace senza tempo, a sole poche ore dalla civiltà insulsa e sfrenata del presente. In quella sterminata terra che aveva conservato integra la storia di decine e decine di milioni d’anni di fatica della natura, si sentiva a suo agio e trascorreva tutto il suo tempo libero. Spesso era il primo a mettere piede in qualche anfratto, a scendere in una depressione modellata dall’antico oceano, di cui gli sembrava di udire ancora il rumore delle onde. Non era nemmeno difficile scoprire orme di dinosauro e talvolta anche qualche frammento di ossa che usciva come un dente dalla roccia compatta.
Il massimo piacere lo trovava però quando si addentrava negli “slot canyon”, i canyon fessura, quelle ferite profonde e quasi invisibili dall’esterno che incidevano gli strati più morbidi, scavati dallo scorrere raro ma impetuoso ed irrefrenabile di piccoli corsi d’acqua. Quando si immergeva in quelle spaccature dai colori assurdi e dalle forme più ardite, il tempo si fermava, e Paul era veramente felice. A volte, quelle formazioni erano così strette e profonde che il cielo scompariva e gli sembrava di immergersi in una grotta senza fondo. Poi d’improvviso uno squarcio d’azzurro intensissimo faceva penetrare un raggio di Sole che illuminava le pareti donandogli tinte mai immaginate dall’uomo.
Ve ne erano a migliaia, sconosciuti ed inesplorati. Bastava avere un po’ di dimestichezza con i salti di roccia, non dimenticare un tiro di corda per superare qualche metro di parete senza appigli, e ci si trovava in un nuovo mondo infinito e struggente.
Paul sapeva anche però che quasi sempre la consapevolezza di essere il primo a scoprire quelle meraviglie era frutto della cultura dei suoi giorni. Nella notte dei tempi, gli indiani vivevano in quelle lande desolate e ne conoscevano tutte le pieghe e le rughe più remote. Ogni tanto, proprio quando pensava di essersi spinto al di là di ogni conoscenza ecco comparire un disegno scheletrico sulla parete. Un cervo, un cinghiale, un leone, un mostro, uno spirito, un dio, un simbolo incomprensibile. Pochi segni neri che gli ricordavano una storia troppo in fretta dimenticata. Comunque la sua felicità era sempre immensa.
Una notte calda d’estate cominciò ad avere il “sogno”. Quel maledetto sogno senza alcuna logica o magari troppo logico e razionale. Sempre lo stesso, ricorrente e con identica fine inquietante. Lui, Paul, camminava lungo il più stretto, profondo e buio canyon mai esplorato. Il rumore del silenzio era assordante e l’etologo cercava di tapparsi le orecchie per non essere frastornato e distratto nel suo avanzare difficile e insidioso. Poi appariva la porta. Dapprima sembrava una grotta, nera come la notte più buia. Subito dopo però si accorgeva che era artificiale: una parete di roccia, metallo, legno, aria e acqua. Liscia e lucida, senza appigli, senza alcun ornamento. Al centro la serratura, un buco per una chiave. Paul la tirava fuori dallo zaino e la infilava con sicurezza in quel foro dai contorni strani e contorti. Cercava di aprirla, ma non riusciva ad andare oltre: il sogno terminava bruscamente e Paul rimaneva con la bocca amara, il cuore che batteva all’impazzata, un’ansia irrefrenabile che lo faceva tremare come un passerotto caduto dal nido.
Dalla comparsa di quell’incubo ricorrente, le sue esplorazioni, le sue gite nell’immensità degli spazi più angusti della natura, non furono più le stesse. Non si beava più del silenzio, della pace, della solitudine. I suoi occhi cercavano sempre qualcosa ad ogni curva, ad ogni passo, ad ogni respiro. Sapeva perfettamente che bramavano di vedere quella porta, di aprirla con la chiave, di vivere il suo sogno e non svegliarsi nel momento cruciale. Ogni tanto pensava di stare impazzendo. Troppe giornate passate da solo, in compagnia dei suoi animali o dei suoi silenzi? Forse… ma, comunque, non poteva fermarsi: Il richiamo era troppo forte.
Stava mangiando un po’ di carne secca ed una mela, sulla cima di quella specie di urlo solidificato, in vista di una territorio senza orizzonte.
Non si stupì nemmeno di vederla, appoggiata sopra una piccola roccia di color rosso sangue. Era lucida, pulita, quasi trasparente. La chiave aveva una forma strana, le sporgenze e le rientranze che la caratterizzavano sembravano non avere senso. Ma non per lui. Paul la conosceva benissimo, era la chiave del sogno, la SUA chiave. La prese in mano e gli sembrò che fosse calda, molto di più di quanto potesse scaldare quel Sole impietoso e rovente. La mise nello zaino e si alzò senza terminare la sua carne.
Doveva muoversi, non poteva rimandare. Come un automa si diresse verso un enorme masso giallo e verdastro che sembrava un rapace in attesa di spiccare il volo. Ai suoi piedi c’era una fessura stretta, irregolare, appena percettibile. Paul, però, sapeva perfettamente che poteva infilarsi al suo interno e così fece. Si trovò davanti ad un canyon impressionante. Era una vera e propria grotta scavata dall’acqua, la luce non filtrava, ma le pareti si facevano sempre più alte.
Il suo passo si fece rapido e deciso. Ormai camminava speditamente e centinaia di metri più in alto intravvedeva la luce filtrare e gettare ombre di fiamma. Non vi erano dubbi. Era nel canyon del suo sogno. Nessuno sarebbe mai potuto entrare, nessuno lo avrebbe mai scoperto, se non avesse avuto il suo incubo notturno. Ormai era vicino, lo sapeva, e fu preso da un ansia terribile. Dov’era quella maledetta porta? Continuava a girare, a seguire quel capriccio della natura, a superare rocce aguzze e strettoie sottili come tagli inferti da un bisturi.
Poi gli comparve davanti. Aveva già estratto la chiave ed il tremore della mano non gli impedì di inserirla nella serratura. Era proprio quella porta, e non stava sognando. Non sarebbe finito tutto improvvisamente. Poteva finalmente aprirla e guardare cosa c’era al di là. Aveva paura? Forse si. Sentiva che oltre quella soglia cominciava probabilmente un altro Universo, un’altra realtà. Sarebbe stato in grado di fronteggiare l’assurdo e l’incomprensibile? Ebbe solo un attimo di titubanza, poi girò la chiave con decisione, urlando per scaricare la sua tensione. La chiave, come nel sogno, non girò …
Il suo urlo, però, si propagò nel canyon, rimbombò, aumentò di intensità, la sua “eco” divenne un tuono spettrale ed irrefrenabile. Sembrava non finire mai e cambiava anche tonalità e cadenza. No, non poteva più essere il suo grido breve e straziante. Nello stesso tragico istante si rese conto di non aver mai capito niente del suo sogno. La chiave non girava nella serratura perché la porta era già APERTA!
si spalancò improvvisamente ed una folla sterminata di figure dai contorni irreali lo travolse e lo calpestò senza pietà, in un turbine intriso di rabbia e dolore. Un pensiero si fece strada nella sua mente frastornata: gli era stata consegnata la chiave non per aprire ma per CHIUDERE quella porta! Solo lui poteva farlo, lasciare nell’oblio tanta infamia, salvare il suo mondo e forse il suo Universo. Ed invece li aveva chiamati con il suo urlo..
Aspettavano solo quello per sapere dove dirigersi, dopo secoli e secoli di attesa. L’ultimo sguardo andò a quei volti senza pietà e senza forma. Li aveva già visti dipinti sulle pareti di roccia e la loro pelle era di color bruno, quasi rossastro.
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Magistrale...!