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Scritto da: Guido Ghezzi
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UN VOLTO NUOVO PER UNA VECCHIA CONOSCENZA*
La nebulosa M57 (NGC6720) , denominata “Anello”, distante circa 2200 a.l. ed appartenente alla costellazione della Lira, è un oggetto storico per l’astronomia: individuata e annotata per la prima volta da Charles Messier nel 1779 fu descritta da William Herschel a più riprese nel periodo 1782-1814.
Nel 1785 Herschel la descrive come “Una Nebulosa perforata, o un anello di stelle. Tra le curiosità del cielo andrebbe annoverata una nebulosa, che ha una macchia scura, regolare e concentrica, ed è probabilmente un anello di stelle. E’ di forma ovale, il rapporto tra l’asse minore e quello maggiore sta come 83 a 100; quindi, se le stelle formano una circonferenza, la sua inclinazione rispetto alla congiungente tra il centro della nebulosa ed il Sole dev’essere di circa 56 gradi.” (fig. 1).

Più tardi, nel 1805-1806, utilizzando un diverso strumento, la descrive come “E’ un piccolo ovale; la zona scura centrale è anch’essa ovale; un settore del margine brillante è poco più sottile dell’altro.” Nelle varie sue annotazioni osservative Herschel non rilevò alcun oggetto nell’area centrale della nebulosa, condizionato sicuramente dalla limitatezza delle ottiche utilizzate.
L’applicazione delle tecniche fotografiche rese possibile un salto gigantesco nello studio degli oggetti celesti, peraltro spesso ad opera di operatori che oggi definiremmo “amatoriali”: fotografi professionisti o ottici specialisti nella costruzione di lenti che tentavano di fissare al meglio su lastra le immagini restituite dai telescopi.
In una delle prime pionieristiche fotografie astronomiche di nebulose M57 rivela l’esistenza di un oggetto centrale, che oggi sappiamo essere i resti della stella generatrice della nebulosa medesima; l’oggetto ha aspetto diffuso ma analogo alle due stelle presenti rispettivamente nell’angolo in alto a destra e in basso a sinistra (fig. 2).

Negli stessi anni M57 viene fotografata più volte senza che ne vengano rilevati maggiori dettagli, tra gli autori merita di essere menzionato Isaac Roberts (1829-1904), geologo dilettante convertitosi all’astronomia cui dedicò tutte le sue risorse, facendosi costruire un doppio telescopio: un rifrattore da 7 pollici e un riflettore newtoniano da 20 pollici con cui eseguì la foto di fig. 3. Roberts fu uno dei grandi pionieri della fotografia astronomica cui diede enormi contributi, insignito nel 1895 della “Gold Medal of the Royal Astronomical Society”.
Come già intuibile dall’immagine di fig. 2, ma ancor più dalla fig. 3, i pionieri dell’astrofotografia si trovarono a fare i conti anche con la granulosità derivante dall’agglomerazione dei sali d’argento che poneva importanti limiti all’ingrandimento della fotografia originale, problema tanto più arduo quanto più l’oggetto appariva piccolo sulla lastra.

Negli anni seguenti i progressi nelle tecniche fotografiche e nelle ottiche procedono rapidi ed anche gli oggetti meno luminosi come le nebulose iniziano a svelare qualche dettaglio in più: nella fig. 4 è riportata l’immagine ottenuta da Herbert Couper Wilson (1858-1940) nel 1897 con il telescopio rifrattore dell’osservatorio Goodsell del Carleton College, a Northfield nel Minnesota. L’osservatorio esiste ancora oggi e dal 1892 fu il patrocinatore ed editore della rivista “Astronomy and Astro-physics” che, una volta ceduta, divenne l’attuale “Astrophysical Journal”, una delle più importanti testate dedicate all’astronomia e astrofisica a livello mondiale.

La nuova fotografia evidenzia abbastanza bene la natura puntiforme dell’oggetto centrale, ormai riconosciuto quale stella, e la sfumatura dei bordi di M57; il testo dell’articolo da cui è tratta riporta che nella lastra originale lo spazio circostante la stella centrale è riempito da una “debole nebulosità, per la maggior parte persa nella riproduzione a stampa. Nessuna traccia di altre stelle a parte quella centrale è mostrata entro la nebulosa”.
Nella stessa pubblicazione si scrive, tra l’altro, che “Non c’è da aspettarsi che si riesca in futuro ad aumentare la capacità dei telescopi di raccogliere luce abbastanza da poter ridurre i tempi di esposizione a frazioni di secondo in modo da eliminare gli effetti dei disturbi atmosferici e poter ingrandire a sufficienza l’immagine per poter apprezzare i più minuti dettagli dell’oggetto.” Una previsione molto pessimistica…
Infatti appena qualche anno dopo M57 inizia a rivelare le proprie fattezze assai meglio che nella foto di H.C. Wilson: l’astronomo James Edward Keeler (1857-1900) con il telescopio riflettore da 36 pollici dell’osservatorio Lick di Mount Hamilton, California, ottiene nel 1899 la fotografia riprodotta nell’immagine di fig. 5.

Keeler tentò vari tempi di esposizione, individuando alla fine in 10 minuti l’intervallo ottimale per evitare sovraesposizioni ed ottenere un soddisfacente dettaglio delle strutture meno luminose. L’anello mostra di essere in realtà formato da diversi anelli tra loro sovrapposti, con zone di obliterazione ad opera della nebulosità ed altre più brillanti (settori agli estremi dell’asse minore dell’ovale, ben visibili in fig. 5). Gli estremi dell’asse maggiore dell’ovale rivelano appieno lo sfrangiamento progressivo verso l’esterno, tra l’altro rendendo difficoltosa la determinazione precisa delle dimensioni apparenti dell’oggetto.
Keeler conferma la natura stellare del punto al centro dell’anello (visibile nettamente anche sulla foto con l’esposizione di 1 solo minuto, qui non riportata, dove comunque l’immagine della nebulosa è molto debole), avanzando anche l’ipotesi (sbagliata) che sia una variabile e accerta l’esistenza di altre 2 stelle: una appena all’interno della zona scura centrale ed una seconda al limite del bordo esterno dell’anello.
E’ sempre l’osservatorio Lick che nel 1918 permette di ottenere la foto che, ingrandita, è riportata nell’immagine seguente (fig. 6) dove i dettagli di M57 sono ormai ben risolti nei loro tratti essenziali: le “sovrapposizioni tra anelli” osservate da Keeler nel 1899 sono chiarissime e finalmente emergono bene le bande chiare e scure trasversali, nell’immagine inclinate di 5° verso l’angolo a destra in basso, bande più volte in precedenza viste direttamente all’oculare del telescopio ma rimaste incerte in fotografia.

Nel 1929 il fabbricante di lenti norvegese Bernhard Schmidt risolve il problema della sfocatura che affliggeva la visuale delle aree troppo distanti dall’asse ottico del telescopio applicandovi una lente correttiva; tuttavia, nonostante gli evidenti progressi tecnologici compiuti, un dato fondamentale ancora manca dalle immagini fin qui viste: quali sono i colori di M57?
Al calare della luminosità l’occhio umano perde enormemente la sensibilità ai colori, al punto che l’osservazione diretta al telescopio di oggetti diffusi e molto deboli non ne permette una valutazione cromatica significativa, fatto da cui discende l’importanza della fotografia astronomica a colori, che divengono finalmente visibili grazie ai lunghi tempi di esposizione.
Purtroppo alla possibilità di raccogliere abbastanza luce da rendere visibili su una fotografia i colori di nebulose e galassie si accompagnano alcuni problemi tecnici: il punto cruciale sta nel riuscire ad impressionare una pellicola a colori in modo da ottenere una riproduzione fedele ai reali colori dell’oggetto, colori che però non sono noti.
Di fatto immagini a colori degli oggetti astronomici diffusi e poco luminosi già circolavano nell’ambito astronomico, ma esse erano in realtà artefatti ottenuti sovrapponendo singole immagini in bianco e nero acquisite su lastre sensibili al blu o al rosso; in seguito venivano assegnati i colori, che di conseguenza non rappresentavano la realtà cromatica dell’oggetto, precludendo l’accesso ad un dato di grande rilievo.
Il problema rimase tale fino al 1958, quando l’ingegnere ricercatore William C. Miller (1910-1981), specializzato in ottica e fotografia, ottenne la prima immagine di M57 in reali colori utilizzando il telescopio Hale dell’osservatorio Palomar, California (fig. 7).

La storica fotografia riveste una rilevante importanza al di là del dato tecnico: i corpi celesti escono dalle intime stanze della scienza e si affacciano, sulle prime timidi e discreti, sul grande palcoscenico popolare; un potenziale spettacolo per gli occhi di chiunque sia aperto alla meraviglia, uno spettacolo che oggi continua a sorprendere per ricchezza e grandiosità.
Dietro al risultato di Miller c’è tutta una storia. La pellicola che scelse, relativamente più semplice da utilizzare rispetto alla diffusa Kodachrome, subiva un drastico sbilanciamento dei colori per lunghi tempi di esposizione, fenomeno dovuto alla differente perdita di sensibilità nei 3 colori base dell’emulsione (rosso, verde, blu). Miller dovette condurre una lunga serie di prove ed esperimenti in laboratorio per definire la risposta cromatica in ognuno dei 3 colori esponendo la pellicola per i tempi richiesti dalla fotografia astronomica di oggetti debolmente luminosi.
Il puntiglioso lavoro di Miller rappresenta una pietra miliare nella storia dell’astrofotografia, i colori che M57 (e i vari altri oggetti celesti che fotografò dal 1958 in poi) mostra nella foto, come egli stesso allora precisò, pur non essendo quelli reali, vi sono molto vicini.
Unendo l’analisi spettrale della luce proveniente dalla nebulosa alle nuove informazioni cromatiche il volto di M57 s’arricchisce di dettagli: la nana bianca centrale, di colore azzurrino, ionizza il gas della nebulosa (relitto dell’immane emissione seguita al collasso della stella originaria), un primo guscio di colore verde attorno alla stella è formato da O e N, il guscio più esterno, arrossato, è costituito da H, lo spazio tra i due gusci, giallo brillante, è riempito dalla mescolanza degli ioni derivanti dai 3 elementi.
La scelta della pellicola fotografica influisce in modo determinante sui colori, come mostra la fig. 8, immagine datata 1973 e ottenuta tramite pellicola Ektachrome con il telescopio Mayall da 4 m del Kitt Peak National Observatory in Arizona; i colori di M57 differiscono parzialmente da quelli ottenuti da Miller con la pellicola Super Anscochrome anche se permane comunque la netta distinzione cromatica tra le varie regioni della nebulosa.

Una volta impreziosito dai suoi splendidi colori l’anello della Lira diviene una delle nebulose più note e rimarchevoli, proposta infinite volte su riviste e libri quale esempio classico di “nebulosa planetaria”, benchè nulla abbia a che fare con i pianeti.
Mentre l’astrofotografia a colori inizia ad usare la tecnica della sovrapposizione di immagini acquisite su pellicole monocromatiche separando la luce attraverso 3 filtri, rispettivamente nel blu, verde e rosso (suggerita da James Clerk Maxwell nel lontano 1861), la tecnica digitale irrompe sulla scena. Nel 1969 Willard Boyle e George E. Smith, entrambi ricercatori presso AT&T Bell Labs, realizzano il primo CCD (Charged Coupled Device).
E’ un’altra pietra miliare destinata a stravolgere l’astrofotografia. Tutto cambia di colpo: la sensibilità rispetto alla pellicola fotografica è enormemente superiore, la lunghezza dei tempi di esposizione crolla, il segnale elettrico restituito dal sensore CCD (per effetto fotoelettrico gentilmente concesso dal magico silicio che restituisce una carica elettrica direttamente proporzionale alla luce incidente) può essere trattato numericamente tramite il computer ed in modo separato su settori differenti dell’immagine.
E’ persino possibile trasmettere l’immagine a distanza ed inviarla a terra dallo spazio sotto forma di bit, pacchetto dopo pacchetto: il sogno del telescopio orbitante (un embrione cullato fin dal 1940, quando si pensava di rimandare a terra le fotografie acquisite automaticamente in speciali contenitori da recuperarsi in aree desertiche) da miraggio inizia a tramutarsi in sogno realizzabile.
L’Hubble Space Telescope entra in servizio nel 1990 e tra vicissitudini varie (ben 4 missioni umane per effettuare “riparazioni”) comincia la riscrittura dell’astronomia ottica; poteva forse mancare un nuovo “primo piano” di M57?
Ed eccolo in fig. 9: un’immagine di rara bellezza data 1998. La magia del CCD con cui è equipaggiata la Wide Field Planetary Camera 2 (WFPC2) dell’HST permise di riprendere la nebulosa in bianco e nero separatamente tramite 3 filtri, alle maggiori lunghezze d’onda venne assegnato il colore rosso, alle medie il verde ed alle più corte il blu, le singole riprese vennero poi combinate ad ottenere una singola immagine.
L’immagine, i cui colori sono approssimativamente quelli reali, fornisce una quantità di informazioni sui dettagli della nebulosa, cosa inimmaginabile un paio di decenni prima:
- lo stato di ionizzazione del gas e le sue condizioni termiche dettate dalla radiazione ultravioletta della nana bianca centrale, un residuo stellare a 120000 °C (fig. 9a);
- l’esistenza di numerosi globuli scuri di polveri presso il bordo della nebulosa (fig. 9b);
- la morfologia non sferica ma piuttosto cilindrica o toroidale della nebulosa, dedotta dal fatto che non vi sono globuli scuri prospetticamente visibili in corrispondenza della zona centrale, ne consegue che l’asse longitudinale del cilindro è orientato grosso modo in direzione dell’osservatore (fig. 9c).




Nel 2011 Hubble torna su M57 e ne restituisce un’immagine ancora migliore (fig. 10): sono ben visibili ulteriori dettagli che sono stati utilizzati per completare il nuovo modello dell’intera struttura, riportato in fig. 11.


La nuova immagine aggiunge ulteriori elementi a completare l’oggetto celeste che appare ancora più complesso di quanto in precedenza considerato: oltre all’alone interno composto da numerose “bolle” e con un diametro stimato in 0.47 pc esiste anche un ulteriore alone ancora più esterno, di forma circolare (in proiezione) con un diametro stimato in 0.83 pc, verosimilmente un guscio molto sottile di gas in progressivo raffreddamento.
Poteva il JWST esimersi dal dare il suo contributo alla conoscenza di un oggetto così iconico per l’astronomia? Certamente no, ed infatti nel 2023 viene pubblicata l’immagine di fig. 12, al momento una delle migliori disponibili, che mostra la gran quantità di dettagli della parte centrale e più brillante della nebulosa.

L’attenta analisi delle immagini ha rivelato la presenza di quasi 20000 globuli più densi ciascuno di massa paragonabile a quella terrestre, ricchi di idrogeno molecolare e la presenza di molecole di idrocarburi policiclici aromatici (una presenza piuttosto inattesa).
Ma Webb ha a disposizione anche lo strumento MIRI (medio infrarosso) e per mezzo di esso ha ottenuto l’immagine di fig. 13.

L’immagine, studiata nel dettaglio, è stata protagonista di un intervento di J. Kastner2 alla 245ma edizione dell’American Astronomical Society (AAS) tenutasi in Maryland nello scorso gennaio. Sulla base dei dati forniti dal JWST e da Hubble il gruppo di studiosi suggerisce alcune interessanti conclusioni:
- la nebulosa è costituita da un sottile guscio esterno di gas molecolare più freddo (CO non ionizzato) che avvolge una “bolla” di gas caldo ionizzato circostante la nana bianca centrale (fig. 14);
- la distribuzione delle molecole di CO è compatibile con la loro provenienza diretta dal “progenitore stellare” da cui si originò la nebulosa, una gigante rossa appartenente al ramo asintotico delle giganti rosse (AGB);
- il gas molecolare è presumibilmente il resto fossile di un evento di eiezione massiva (risalente a circa 6000 anni fa) occorso nella fase terminale dell’evoluzione della gigante rossa;
- il guscio di materiali espulsi dalla gigante rossa è stato quasi interamente disgregato da getti polari collimati dovuti all’interazione tra la gigante rossa ed una o più stelle compagne che, orbitando, hanno anche “scavato” traccia del passaggio nella materia in allontanamento dalla stella centrale morente formando gli archi concentrici esterni.
I sottili filamenti radiali che si dipartono dall’anello più brillante (che spiccano nell’immagine di MIRI mentre sono più deboli nella ripresa di NIRCam) sono verosimilmente composti da molecole che riescono a formarsi nonostante l’intensa radiazione proveniente dalla stella centrale perché schermate ad opera dei settori più densi della nebulosa.

La nebulosa “Anello” attrasse l’occhio di William Herschel e colleghi tanto tempo fa, poi le prime rozze immagini fotografiche hanno tentato di fissarne le fattezze, ed ora, dopo quasi 250 anni, è il JWST a scrutarla per svelare qualcuno dei suoi segreti: una lunga storia, scandita da una quantità di lavoro davvero immensa e da un grande (e inimmaginabile) progresso tecnologico.
2 - https://aas.org/sites/default/files/2025-01/AAS245_Tue2_JoelKastner.pdf
Stefan Hughes “Ages of Astrophotography 1839-2015” per le fotografie storiche di M57
Per un’esperienza “zoom-in” nei segreti di M57 cliccare sui seguenti link, ingrandire ed esplorare a piacimento:
https://webbtelescope.org/contents/media/images/01H82G0PP38P6PBXQ11BEVSMY0
https://webbtelescope.org/contents/media/images/01H82PE80A0KG96GTZJR4KY7G7
4 commenti
Meravigliosa sequenza, da un quasi commovente iniziale a un pirotecnico, entusiasmante finale. Torna anche un po' di fiducia nell'umanità
Dai fotografi professionisti l'invertibile Kodachrome era ritenuto il migliore, ma lo si poteva sviluppare solo in pochi laboratori specializzati, motivo per cui dagli anni 70 fino all'avvento del digitale ho impressionato decine di migliaia di rulli Ektachrome 6x6 e 24x36. Leggendo il tuo articolo una lacrima dagli occhi miei spuntò
Grazie Alberto, quando scrivevo l'articolo ogni tanto pensavo proprio a te, fotografo espertissimo...
E buona Pasqua a tutti.