Categorie: Arte e letteratura
Tags: Bisciabova I tesori di Guido
Scritto da: Guido Ghezzi
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SULLA BISCIABOVA
Questo è il sesto dei "Tesori di Guido" raccolti nella sezione d'archivio ad essi dedicata
La lingua italiana è una miniera che può regalare intriganti sorprese all'esploratore di vocabolari e solleticare avventurose scorribande in parlati antichi, talvolta in ombra di magia e di mistero.
SULLA BISCIABOVA
(di Guido Ghezzi)
Un dizionario cattivo sarà tutto quel che volete;
ma anche uno buono, non è,
per chi ci abbia messo un po’ gli occhi e la coscienza,
che una gamba di cane [...]
(Policarpo Petrocchi)
M’aggiravo, in fastidiosa tenzone con le più vuote noie pomeridiane, per le morte periferie di un esausto vocabolario, di lunga infettato da muffe. Il popolo là ordinato soffriva d’un male ora sotterraneo ora terminale: le nefaste scorie s’allungavano in brune costellazioni sui caratteri, talune parole giacevano ormai vinte dalla farina parassita, talaltre s’agitavano in spasmi estremi, altre ancora ostentavano la dignità d’un tempo benchè contaminate. Poche resistevano in piena nettezza.
Sfidando i pungenti vapori esalati dalle pagine scorrevo dunque le malconce schiere come un capitano di fronte ai reduci da una rotta campale, cupo e meditabondo. Ma, in fondo, non delle piaghe onnipresenti mi preoccupavo né delle corrose uniformi di quella strenua congerie, quanto piuttosto dello scoramento che riscontravo ormai ubiquo e traboccante tra una parola e l’altra. Scoramento che traeva origine, così mi parve di ravvisare, dal sentore di abbandono e dall’aura di oblio stesi sui vocaboli come cappe funebri sul mobilio di una dimora vecchia e deserta da decenni e decenni. Di fatto ad un pugno per ogni pagina si potevano assommare i termini ancora in uso mentre altri avevano dovuto accettare volgari deformazioni pur di sopravvivere e permanere alla luce diuturna del colloquiare, ma macchiate da ontosa abiura. Un baratto peraltro ignoto ai moderni artefici dello sconciato uso, come tradizione vuole sia il boia del tutto ignaro delle colpe chiamato a punire. Colpe, nel caso in questione, mai poste alla previa attenzione di competenti tribunali e piuttosto sancite nella cieca premura di sgravarsi d’ogni vecchiume, d’ogni aria stretta spalancando le finestre a nuovi refoli senza paventare l’ingressione di eventuali pestilenze.
Incerto se proseguire nell’esumazione di quei relitti, giudicando poco profittevole cercar vittoria sulla noia nel supplizio di contar le perdite che s’andavano infoltendo ad ogni pagina, ero ormai sul punto di rinunciare e consegnarmi alla vastità dell’ozio. Fu, invece, uno tra i tanti cadaveri a richiamarmi all’attenzione. Un lemma dal corpo composito, curvilineo e, una volta articolato, dal suono così curioso da sembrare un gioco ortografico scaturito dall’inventiva labiale di un bambino alle prese con un suo immaginario essere, bisognoso di un appellativo consono a tanta bizzarria.
Per un qualche inciampo tipografico il lemma giaceva tra smorti compagni al bordo d’una macula untuosa che aveva stinto l’inchiostratura laddove avidamente cercavo di leggere il significato dello sconosciuto. Messa mano alla mia migliore lente cercai di vincere la nebbia importuna ma non ebbi successo, null’altro era discernibile se non il lemma stesso: bisciabova.
Che cos’era dunque il bisciabova? O la bisciabova? La possibilità femminile era senz’altro plausibile. Tuttavia alla mia ottica si sottraeva anche il genere del lemma che pure là di seguito s’era inteso stampare e che il malandrino untume aveva invece inghiottito.
Frattanto esso, il lemma, quella parola così intrigante, mi s’insinuava nella mente, infiltrava i ventricoli cerebrali, titillava invincibile la mia curiosità. Il cadavere perciò non del tutto cadavere era: in barba all’aspetto di salma, anzi di mummia, ancora si rivelava capace di qualche fiato. Un indizio di vita mi appariva senz’altro; seppure tenue riusciva a darmi un piacevole stuzzichìo e d’un colpo mi offriva il destro per sconfiggere quel pomeriggio, per togliermi di dosso lo sguardo vitreo della pendola d’angolo che m’angustiava i sensi.
D’altro canto intuivo la fragilità di quella tregua appesa ad un filo di ragno; una breve cerca in un altro dizionario avrebbe sanato la fallanza e prostrato me, fisetere infine senza rimedio spiaggiato sulla noiosa sponda.
Misi mano con molle gesto allo Zingarelli. Voltai i fogli indugiando qui e là fino alla ricercata voce.
Niente.
Bisciabova era termine del tutto ignorato dallo Zingarelli.
Il mistero s’infittiva inaspettatamente.
Drizzai il collo, richiamai le energie dal risucchio del sofà tentatore.
S’imponeva indagare più a fondo.
In tutta evidenza occorrevano mezzi di maggior efficacia. Che fosse un tecnicismo, uno specioso dire per indicare un banale aggeggio? Che so, una giogaia, uno staffile, un palorcio…Una bestia forse? Un crotalo cornuto per esempio. Anzi una traccia! Non poteva tal bisciabova con buona ragione denominare il secreto lasciato da un lumacone incerto tra il dirigersi ad una succulenta lattuga piuttosto che al fustello di una bietola?
Con ulteriore curiosità passai dunque alla consultazione della fluviale enciclopedia Treccani, proverbiale deposito di conoscenza e vanto nazionale. L’indagine non fece che alimentare la mia smania: anche in quell’estremo pilastro non v’era traccia del vocabolo, evidentemente inabissatosi nello stagno del passato. Il tarlo ora andava acquistando forza e in breve, sapevo, avrebbe messo casa in compagnia d’altre mie ossessioni quotidiane. Non v’era scorno peggiore che non poter usare quel redivivo senza volto, condannarlo ad una seconda inumazione dopo una breve boccata d’aria.
Ma ancora disponevo di un ultimo ricorso, benchè esso stesso relegato nello scantinato della lingua in favore di altre più snelle collazioni lardellate di sfrontati neologismi e turpi importazioni.
Con malinconica deferenza m’addentrai perciò nel Tommaseo-Bellini1.
Il lemma finalmente otteneva giustizia, la mia ignoranza veniva sanata. L’immarcescibile dizionario (ritenuto tuttora insuperato ed indispensabile da studiosi del calibro di Luca Migliorini2) recitava infatti testualmente:
bisciabova. S.f. Quel turbine che anche dicesi Tifone. […] Vive in qualche dial. Forse dal suono, che fischia avvolgendosi, e mugge.
Dunque la bisciabova apparteneva al dominio atmosferico!
La soddisfazione tuttavia recava un’ombra. Ombra che andava addensandosi col mio riflettere sul rigo appena letto.
Per via di lontane frequentazioni delle discipline meteorologiche un campanello m’era trillato in testa, sollecitato dall’origine del termine ipotizzata dal Tommaseo, apparentemente riferito alla tromba d’aria mentre la bisciabova era poche parole prima legata per sinonimia al tifone, che invece sapevo i testi specifici indicare quale accidente atmosferico di ben superiore dimensione e durata, capace di devastare e inondare intere regioni al passaggio, tipico del mar cinese e del Pacifico nordoccidentale.
Peraltro la verifica sulla medesima fonte sembrava non lasciar dubbi circa la natura del tifone stesso, descritto con una cornucopia di citazioni, come d’uso nel Tommaseo:
Tifoni chiamano un'altra affezione molto più pericolosa, al parere loro. Questa è un vento furiosissimo, il quale in molte poche ore gira tutto l'orizzonte; e guai a quelle navi che e' trova con le vele alzate, perchè le sommerge senza rimedio.
Oppure: non v'è spavento paragonabile a quello de' naviganti, i quali in mezzo all'Oceano, assaltati d'ogni intorno da turbini e da tifoni, veggono…
e: insuperabile forza del tifone, che fa quel mare inverso Oriente burrascosissimo.
e infine: per la costa di Natal si sentono nella cattiva stagione delle tempeste, e de' venti tifoni crudelissimi, di pericolo grande a' naviganti per quella costa.
La questione si faceva succosa e ricca di sfaccettature: bisciabova era termine arcaico effettivamente sostituito dalla moderna voce “tromba d’aria” o indicava un fenomeno affine? Il Tommaseo, compilato dal 1857 al 1874, accennava all’ambito dialettale del lemma, ma esso poteva a buon diritto ritenersi d’uso tanto esteso geograficamente da venir promosso alla lingua nazionale? Era parola davvero estinta o ne restava qualche traccia nel linguaggio odierno? L’eventuale atto di morte aveva una data?
Non solo c’era materia per fugare ozio e tedio fino a sera, ma i due temuti complici, sempre pronti ad intrufolarsi tra un’ora e l’altra, sarebbero stati banditi per qualche tempo oltre.
Passai dunque a sfogliare il Petrocchi3, altro campione annoverato da Migliorini.
La bisciabova qui, e siamo già al 1894, si rivelava viva e in buona salute ma sempre in stretta compagnia del tifone (bisciabova, s.f. Sorta di turbine. Anche Tifone.) mentre quest’ultimo, definito quale “vento vorticoso e impetuosissimo”, assumeva fattezze assai meno dettagliate rispetto al Tommaseo, pertanto non utili ad un ultimo chiarimento.
Ormai attizzato come un veltro sulle tracce della preda m’immersi nei vocabolari regionali dell’epoca, dove effettivamente la bisciabova (o sue versioni leggermente modificate) era diffusamente presente:
nel dizionario romagnolo-italiano del Morri4 (1840) alla voce bessabova: bisciabova, uragano, scionata, girone di vento, tifone, sifone. Tempesta orribile e violenta pel contrasto di più venti;
nel vocabolario romagnolo-italiano del Mattioli5 (1879) alla voce bessabova: bisciabova, turbine, tifone;
nel dizionario del dialetto veneziano del Boerio6 (1867) alla voce bissabova: bisciabova, uragano, nembo, procella, scionata, turbine, girone di vento. Tempesta orribile e violenta pel contrasto di più venti;
nel vocabolario mantovano-italiano del Cherubini7 (1827) alla voce bissaboeuga: turbine ed anche moto o figura a zig-zag;
nel dizionario-vocabolario del dialetto triestino e della lingua italiana del Kosovitz8 (1890) alla voce bissabova: bisciabova, nembo, turbine, turbo.
L’incursione nei territori vernacoli confermava dunque il diffuso spiraleggiare della bisciabova nell’Italia settentrionale almeno lungo tutto il XIX secolo, allungandosi anche un’ombra di plausibili suoi sconfinamenti in tempi successivi (a meno di una subitanea e immotivata estinzione).
Un poco di chiaro andava facendosi. Tuttavia s’era ancora in un’intricata boscaglia di significati, seppur circoscritta alla materia aerea. Della bisciabova s’era occupato anche l’Ascoli, ma la svelta ricerca nel volume del suo Archivio Glottologico Italiano9 del 1901 non fece altro che innervosirmi snocciolando un’asfissiante proliferazione di accezioni, tutte allineate nel medesimo battaglione già ordinato dal Tommaseo e dai suoi colleghi.
Scomposti borborigmi e palpebre pesanti mi convinsero ad abbandonare il lemma, non senza promettere un mio celere ritorno in compagnia di rinforzi. L’avrei tolto dalla palude in cui languiva, missione che ormai sentivo irrinunciabile; tutto stava nel rintracciare un viticcio utile ad estrarlo dalla broda.
Raccolte le idee con l’assistenza di un pasto francescano, imposto tale dalla frenesia e dall’impazienza inoculatemi dalla ricerca e non certo per mio costume, abbandonai i dizionari per dirigermi in territori più diserti, frequentati da quei pochi pungolati dall’inspiegabile necessità di rovistare stanze replete di anticaglie. In qualche polveroso anfratto forse avrei incontrato la bisciabova, o una sua traccia; ciò mi avrebbe permesso di identificarla con certezza e stabilire pertanto se e quale mutazione avesse subito nel traversare le epoche fino a noi.
Impresa ardua, considerate le minime informazioni a disposizione, questo m’era chiaro.
Tutto ciò di cui disponevo era, per riassumere, un’apparente discrepanza là dove la bisciabova, chiamata anche “girone di vento”, “scionata”, “procella”, “nembo”, “turbo” e “turbine”, era identificata con il tifone. Per non parlare dell’ulteriore confusione sollevata dalle voci “uragano” e “moto a zig-zag” in cui ero incappato.
Ma avevo un vantaggio.
La meteorologia sapevo esser stata promossa a vera scienza in tempi recenti mentre in passato contava tra quelle discipline, come l’astronomia, in nient’altro consistenti che in maniacali raccolte di osservazioni e dati, sottoposti poi a pedantissime calcolazioni. Certuni fenomeni di particolare impatto sull’osservatore, scrupolosamente annotati ed esaltati, non di rado fornivano campo ad aspre contese accademiche.
Insospettati rimasugli scolastici, stimolati forse da questo riecheggiare di emaciate memorie, mi fecero ricordare dell’esistenza di certe settecentesche raccolte di dissertazioni e prolusioni sugli argomenti più svariati, pubblicate in folio da rari stampatori lungimiranti ed ispirati (che dopo trecento e più anni rari son rimasti, se non quasi estinti, si direbbe curiosando nelle librerie).
In un rigurgito di reminiscenze mi sovvenne financo il titolo di una di tali raccolte, forse la più autorevole del tempo e stampata in Venezia dall’Albrizzi.
Benchè stordito dalla stupefacente impresa mnemonica afferrai quel bandolo e lo risalii fino ad estrarre tutto il succo dall’esaltante rinvenimento: “La Galleria di Minerva”, così titolava l’enciclopedico intento che il virtuoso stampatore opponeva all’invasione di rinomate pubblicazioni di provenienza francese, inglese e olandese. Invasione che, con grande facilità, si riversava a riempire i salotti italiani, afflitti dall’annoso ritardo dell’editoria scientifica nostrana (che non par oggi aver terminato la rincorsa, non in quanto affidata ai garretti d’un ciuco ma perchè, ora come allora, “è mancato collo studio il desiderio de’ buoni libri”10).
Tra le poche opportune abitudini ereditate dal passato è rimasta quella di ordinare le materie secondo indici, dispositivi salvifici per il cercatore quanto i fari per il navigante; a quelli mi rivolsi in cerca della bisciabova tra le centinaia di scritti ospitati nella “Galleria”, il cui titolo completo riassumeva con gran pompa i coraggiosi intenti dell’opera:
La Galleria di Minerva overo notizie universali di quanto è stato scritto da Letterati d’Europa non solo nel presente secolo, mà ancora ne’ già trascorsi, in qualunque materia Sacra, e Profana, Retorica, Poetica, Politica, Istorica, Cronologica, Geografica, Theologica, Filosofica, Matematica, Medica, Legale, e finalmente in ogni Scienza, e in ogni Arte sì Meccanica come Liberale. Tratte da libri non solo stampati, ma da stamparsi ove oltre a quanto insegnano gli Atti di Lipsia, e d’Inghilterra, l’Effemeride di Germania, e la Biblioteca Universale di Francia, ed i Giornali de Letterati d’Italia, saranno inserite nuove curiosità ed insegnamenti.
A profitto della repubblica delle lettere con intagli de’ Rami opportuni à suoi lochi.
C’era; la bisciabova c’era.
Tomo sesto, anno 170811.
A pagina 29 tal Bernardino Zendrini dedicava a “sua Eccellenza il Signor Vicenzo Grimani Calergi senatore amplissimo” un “Discorso Fisico-Matematico sopra il Turbine seguito il giorno 25 di Genajo 1708, in Venezia; dove si tratta anche in generale dell’Aria, de’ Vapori, e della Generazione de’ Venti, e delle Bisciabove”.
Lo Zendrini, “medico degnissimo in Venezia e letterato d’ottimo gusto” come vien appellato in una lettera a lui indirizzata e pubblicata nel medesimo tomo, dava l’attacco al suo discorso meteorologico davvero con “ottimo gusto”:
“Non di rado nella Natura accadono de’ fenomeni che sembrano a gl’occhi del volgo aver seco del portentoso, ma se si riguardano da quelli del Filosofo si scoprono necessari effetti ed indispensabili delle lor cause: Tale fu quello del Turbine accaduto ne’ giorni passati, riguardato, e considerato se non altro come un miracolo della stagione. Io procurerò di scoprire a V. E. la vera causa di questa meteora, e di farle vedere altresì spiegati i suoi sintomi: E per render più chiara la causa del fenomeno tratterò, benchè con tutta brevità, dell’Aria, de’ Vapori, della generazione de’ Venti, e de’ Turbini; passerò poi alla considerazione particolare della Bisciabova seguita in questa inclita Città il giorno sudetto: […]”
Al termine dell’analisi dei fenomeni atmosferici comunemente chiamati “venti”, prolissa al punto di causarmi un principio di risipola, finalmente pervenni al capitolo IV°: De Turbini chiamati Scioni, ò Bisciabove.
Qui lo Zendrini esordiva scrivendo che le bisciabove:
“[…] altro non sono che un moto vorticoso dell’Aria determinata a volgersi in giro, ed a lasciar nel mezzo uno spazio vuoto d’Aria; e ciò proviene dalla forza di due Fiumi della medesima, che hanno le direzioni del loro moto contrarie.”
E più avanti, nel descrivere l’aspetto della bisciabova:
“[…] più ristretto verso l’orizzonte, più largo verso i nuvoli.”
Lo Zendrini, per braccio del risoluto Albrizzi, aveva sciolto il mio rovello iniziale, ma tant’è restavano ancora fumosità e vaghezze.
La bisciabova indicava la manifestazione visiva del fenomeno noto come tromba d’aria o tromba marina, molto bene, ma perché essa veniva equiparata al tifone? Era allora quest’ultimo che aveva subito una metamorfosi, preso atto che attualmente il tifone si differenzia dall’uragano per alcune sue specificità di una qualche rilevanza solo agli occhi dei meteorologi?
Non ero disposto a contentarmi del progresso raggiunto, ancora m’urgeva approfondire la questione. Se ambivo a destare il lemma dal suo letargo ciò doveva avvenire con piena consapevolezza.
Insomma, volevo seguitare a baloccarmi con la bisciabova, a dirla schietta.
Presi a saltabeccare perciò da un indice all’altro alla ricerca d’argomenti affini, citazioni e notiziole; cicindelli che potessero rischiarare gli angoli più riposti delle voraci indagini illuministe, là dove la bisciabova, forse, guatava rintanata.
Brancolai in labirinti ciechi, m’intrufolai in sacche di stravaganti considerazioni, trovai studi sull’inchiostro ferrogallico, sulle ovaie dell’anguilla, sull’organo elettrico del gimnoto e infine sui “corpi marini che su’ monti si trovano”. Qui il Vallisneri12 s’arrischiava nell’acre disputa circa il diluvio universale, invocato da taluni a giustificazione del rinvenimento di reliquie ittiformi nella stretta minerale dei fianchi montani mentre altri le supponevano esser corpi colà deposti e petrofatti dopo esser stati risucchiati dal mare ad opera dei “vortici aerei”.
Per farla breve m’ancorai a quei vortici aerei e li tenni fino a giungere al trattatello di Padre Boschovich13, ivi giustappunto sostenitore del “turbine” in veste di corriere di prodotti ittici a beneficio delle pasture d’alta quota.
La trovata dell’emerito gesuita dalmata s’opponeva ad uno scritto di tal Giuseppe Antonio Costantini14, avvocato in Venezia e acceso sostenitore della divina purga, da lui finalmente in quei fogli “vindicata dai dubbi e dimostrata nelle sue testimonianze”.
Il fatto che fosse il laico a levar voce sdegnata contro la supposta eresia del religioso già muoveva il mio interesse ma risolutiva fu per la mia cerca la replica al Boschovich.
L’uomo di legge, infatti, non intese dar strada alle ariose tesi del croato, e tosto fece stampare un intero volume al proposito, intitolato nientemeno che alla mia bisciabova:
“Il Vortice Aereo, volgarmente detto Scione, o Bisciabova, spigne e non assorbe. Trattato apologetico-critico dell’avvocato Giuseppe Antonio Costantini Autore delle Lettere Critiche A Difesa della sua Dissertazione in tale argomento posta in fine del libro intitolato La Verità del Diluvio ec. Sopra quanto ha scritto in contrario il M. R. P. Ruggero Giuseppe Boscovich della Compagnia di Gesù Nel suo libro stampato in Roma nell’anno 1749, trattando del Turbine ivi accaduto nell’anno stesso.”15
S’era al punto. Il Costantini sommergeva sotto un pelago di considerazioni quanto sostenuto dal rivale e non senza un certo strisciante acidume, manifesto fin dall’incipit:
“Quantunque la diffidenza, e l’amore del vero abbia, con utile grande delle Lettere, riempiuto il Secolo nostro di Critici, non per questo l’Umanità ha spogliato i suoi ingeniti pregiudicj. Vi sono de’ Scrittori tuttora, che danno di fronte agli altrui Sistemi condotti da vanità, altri da genio di contraddire, altri dal troppo affetto alle volgari opinioni, altri ancora, benchè pochi, dalla livida brama di oscurare il buon nome, che si è acquistato chi ha scritto diversamente. Il Ciel mi guardi dal supporre guidata da alcuno di questi difetti la penna del M. R. P. Ruggier Giuseppe Boscovich della Compagnia di Gesù, allorchè scrisse la sua Dissertazione sopra il Turbine successo in Roma la notte tra li 11. e li 12. di Giugno 1749. stampata quell’anno stesso in quell’alma Città; ma non posso però scusarlo da impegno di prevenzione.
Due anni prima avevo io fatto stampare in Venezia il mio qualsisia Libro intitolato la verità del Diluvio Universale, una gran parte del quale consiste in togliere tutti li dubbi introdotti contro l’antico Sistema, che sostiene, essere li Corpi Marini, che su i monti ritrovansi, vere reliquie di quella universale inondazione; ed in abbattere tutti i Sistemi contrarj. Questo impegno m’indusse a chiudere il Libro con una Dissertazione, in cui, cercando di togliere il volgare inganno adottato anche da alcuni Fisici di qualche nome, che li vortici aerei abbiano un’azione attraente; e dimostrando colla ragione, e col fatto, che la loro azione è impellente; mi feci incontro al sentimento di quelli, che ansiosi di attribuire il Fenomeno de’ Corpi Marini a tutt’altro, fuorchè al Diluvio, dietro quella fallace supposizione, volean credere piuttosto, che da tali Vortici fossero stati attratti quei Corpi dal Mare, e gettati su i Monti.”
Il trattato “apologetico-critico” proseguiva con gran copia di testimonianze, dirette o riportate, tutte a suffragio dell’azione “spingente” della bisciabova.
La quistione motivo del contendere poco m’intrigava: che la bisciabova spignesse o sorbisse al suo passaggio non aggiungeva un bruscolino che mi fosse utile a capire quanto avesse a che fare con il tifone; epperò le descrizioni offerte dal Costantini erano quanto di meglio potessi sperare per identificare la meteora.
Non di rado in quei fogli questa mi pareva esser percepita a guisa d’un sembiante animalesco, temuto in sommo grado al primo manifestarsi sull’orizzonte. Il nostro avvocato, evidentemente libero da asfissie finanziarie e pertanto licenziato ad occuparsi anche di fenomeni estranei a tribunali e dispute legali, scriveva:
“In una Camera di un Palazzo al Dolo, ove eran corse le Donzelle a chiudere le finestre nell’arrivo della Bisciabova, videro alzarsi il pavimento nel mezzo, come se dal disotto fosse da gran violenza alzato in su; ma in un subito ritornò a suo luogo, lasciando una tripartita, e grande fissura nel terrazzo, e piene di spavento quelle Cameriere.”
E poco oltre:
“[…] con un Contadinello della Battaglia di età di anni 16 in circa, che si trovò il giorno del Turbine d’avanti la Casa del Molino da Carta…e fu dal vento portato in un subito, senza quasi toccar terra, verso la porta di detta Casa, che era chiusa, nella quale senza dubbio sarebbesi infranto, se tutto nello stesso momento non avesse il vento spezzata anche la porta, e trascinato con le tavole della medesima porta, anche il Garzone dentro a quelle stanze terrene, dove egli si trovò, non sa ben dir come, rintanato, e mal trattato di percosse sotto il letto della seconda Camera; i mobili della quale erano tutti messi sottossopra, e n’erano usciti nella parte di dietro della Casa buona parte per quegli uscj, e finestre.”
Nel suo cammino di devastazione nulla potè essere opposto al vortice, nemmeno l’estremo ricorso all’infallibile prece, nonostante l’invocazione fosse stata repentina:
“Nel racconto delle cose avvenute nella Villa de’ Signori Quarantotto, dice così: al primo udire il gran rumore, la Signora scosse il Signor Lodovico suo marito, gridando Terremoto….Cominciò subito il Sig. Lodovico a recitare l’Ave Maria, al principio della quale sentì la prima scossa con un fracasso di vetri rotti e coppi giù caduti dal tetto; a mezza l’Ave Maria sentì la seconda, la terza al fine di una più gagliarda dell’altra, con triplicato fracasso di spezzature di vetri, e di cadute di coppi.”
Ma la democratica bisciabova non risparmiò d’offendere anche la nobiltà:
“[…] nel Palazzo del Sign. Duca di Caserta, dove passò il Turbine…alquanto obliquamente da quella parte, che corrisponde a Scirocco. Si dice che nelle stanze abitate dalle Donne, e Signorini più piccioli (dove peraltro non v’era alcuno, perché erano a villeggiare, ed il Palazzo era custodito da una sola donna) è venuta giù buona parte del tetto sprofondandosi col tavolato, che le copriva. […] La suddetta Donna.…tutto in un tratto sentì il colpo di vento, il rumor rauco violentissimo, il crollo, l’ondeggiamento, e per gli appartamenti di sotto, sentì rompere i vetri delle finestre, come se battuti venissero con un bastone. […] spalancò quasi nel medesimo tempo la finestra, benchè chiusa con un catenaccetto di ferro, e per essa entrò nella stanza un turbine di vento, che scosse in giro la lucerna, la quale stava sul pavimento, versandone intorno quasi tutto l’oglio, benchè senza estinguerla.”
L’ingluvie della bisciabova pareva dura a saziarsi. Proseguendo nella lettura dei gustosi resoconti m’imbattei persino in inquietanti segnacoli, che turbarono l’inerme sentinella della magione ducale:
”Vide essa una gran luce, e le riempì la stanza di un’alito fetente di zolfo acceso. […] Scesa la Donna a giorno chiaro negli appartamenti di sotto, ritrovò in quello della Signora Duchessa il fetore medesimo di zolfo, che in qualche altro appartamento non si sentì.”
L’alito urente della bisciabova visitò poi anche altri:
”In tanto nella Casa del Vignajuolo si spalancò parimenti la finestra dalla banda del Turbine, ed entrò per essa nella stanza medesima una vampa di fuoco, e fumo con puzza grave di zolfo.”
E neppure l’alta appartenenza curiale potè scongiurare l’infernale visita:
”[…] nella vigna del Signor Cardinal Alberoni si vedevano vestigie manifeste di brugiaticcio nelle frondi delle viti, e di annerimento nelle canne.”
Lo stesso Padre Boschovich, infine, dovette verificare con i propri occhi la potenza della bisciabova:
“Nella vigna del Noviziato nostro, essendovi un lungo viale di cipressi folti sino quasi a terra, e spessi, che sul principio vicinissimo alla direzione del Turbine, ha come una piazzetta tonda; in quella sono stati sradicati quasi tutti i Cipressi, e rovesciati colle cime gli uni incontro agli altri verso il mezzo della piazzetta medesima.”
Il Costantini naturalmente riportava anche la propria diretta testimonianza; qui l’acuto osservatore forniva importanti dettagli:
“Voglio però prima narrare un caso a me succeduto sei anni sono mentre mi trovavo nella mia Casa di Villa nel mese di Giugno. Sopraggiunse verso le ventun’ora un orrido temporale, che ci obbligò a chiudere la porta verso Tramontana; ma non recò, che gran pioggia, con minuta gragnuola. Un’orrido fragore di vento, poi tutto ad un tratto il volare, e il cadere de’ coppi ci ammonì d’un Vortice; e tosto vidimo spignere la porta chiusa, a cui accorremmo in tre, e si durò un’estrema fatica in fare, che la spinta non rompesse li catenacci, che furono però forzati, e torti; ma tosto passò via, non essendo durata la violenza due Ave Maria.”
La furia della meteora e i modi del suo agire si presentavano forse meglio che altrimenti nel resoconto di quanto accaduto lungo una qualche strada tra padovano e vicentino:
“[…] mi sovviene d’aver veduto già 46. anni in Vicenza un Vetturino, che chiamavano col soprannome di Maltempo; e mi fu detto essergli stato imposto tal nome, perché andando con un Calesse, entrovi due persone, da Padova a Vicenza, un Turbine orribile lo avea levato col Calesse, e li Cavalli, e trasportato lungi dalla strada nel Cortile di una rustica Casa, senza che egli, ne le persone soffrissero, sennon scuotimento; toccata tutta la percossa ai cavalli, e al Calesse”.
Grazie alla prolifica penna del Costantini ed alla contesa con il gesuita potei così collezionare una discreta messe di descrizioni.
Di più, esse, che ritenevo fededegne in ragione della loro soddisfacente coerenza, costruivano un concorso di saporite situazioni ove un semplice singulto della Natura era bastante a sopraffare l’uomo, sbatacchiato malamente coi suoi artefatti: così le ingenue donzelle del palazzo al Dolo correvano ai ripari chiudendo le finestre sul muso della bisciabova mentre questa gonfiava il pavimento sotto i loro piedi; il contadinello veniva maltrattato come uno straccio lavapavimenti; i signori Quarantotto constatavano che la bisciabova era del tutto immune all’Ave Maria (quantunque impugnata tempestivamente) e la governante del palazzo casertano sperimentava in prima persona, come pure il vignajolo, un turbamento condito da un sulfureo avviso di potenze infernali all’opera.
Peraltro la bisciabova si mostrava anche benigna, pur marchiando il vetturino con un indelebile soprannome bastante a distoglierne la clientela più superstiziosa.
Giusto per non lasciar cadere tanto sforzo profuso dal Costantini mi par obbligo riportare la di lui chiosa finale, con cui tace il Boschovich:
“Ho soddisfatto il mio impegno di diffendere quanto avevo scritto, non per vanità di pontiglio, ma per togliere a chi non crede il grande avvenimento del Diluvio Universale, il miserabile rifugio di supporre attraente l’azione de’ Vortici Marini; e perciò, che possano aver assorbiti li Pesci, le Conchiglie e li altri Corpi del Mare, e gettati su i monti.”.
Grazie all’acribia del Costantini ottenni l’ulteriore risultato di render giustizia al Tommaseo circa l’identificazione della bisciabova con il tifone. L’avvocato-meteorologo infatti, dopo aver invocato la somma autorevolezza aristotelica, sanciva che vi sono 5 specie di “venti sregolati o repentini” e tra questi:
“La terza specie è il Tifone, che è il nostro Vortice, o Scione […]”
E aggiungeva che gli “Uracani, urgani o Oragani”:
“[…] non sono Meteore del carattere che noi abbiamo in esame. Quelle sono tempeste orribili, che ingombrano tutto l’orizzonte; e sono prodotte da venti impetuosissimi, e disordinati […]”
Dunque la bisciabova ed il tifone, se non proprio sinonimi, eran intesi in strettissima somiglianza e perciò non era da farsi meraviglia che il Tommaseo li avesse accorpati nella medesima voce; evidentemente il tifone, subodorata l’aria stantia farsi attorno alla bisciabova, se n’era poi andato per i fatti suoi preferendo accompagnarsi all’uragano. L’impostura s’era poi guadagnata la patente di consuetudine, come spesso accade, tant’è che anche la prodigiosa Treccani m’indicava il tifone quale sinonimo dei cicloni tropicali, accreditandone l’etimologia dal latino typhon – onis “turbine, uragano”.
Il succoso diversivo aveva infine esaurito i suoi effetti: la bisciabova era libera dal sudario e la pendola aveva ripreso le redini del tempo.
La meteora indicava il fenomeno atmosferico notato oggi come “tromba d’aria”, il tifone aveva invece disertato passando sotto le insegne di altre potenze: cicloni tropicali e uragani, accidenti atmosferici estremi in grado di metter in ginocchio intere regioni al loro prender terra dopo essersi gonfiati d’energia tratta dalle masse oceaniche.
Il sospettato richiamo al mondo animale, duplice a giudicare dall’accoppiata “biscia” e “boa” (o “bova” che sia), mi venne infine confermato da alcuni scritti dell’Alinei16,17, questa volta ben più vicini a noi.
In questi lo studioso, rimarcato l’uso arcaico di estendere nomi d’animali ai fenomeni naturali, testimoniava l’antica origine del lemma: “bovae” son chiamate infatti da Plinio nella sua Historia Naturalis i serpenti enormi “capaci di ingoiare tori e cervi, o di risucchiare uccelli che volano, o di sfidare un esercito”.
Un essere vicino al drago o alla lamia, un “serpente favoloso”, sostanziato poi ad indicare una minaccia atmosferica dispensatrice di distruzione e terrore, stava quindi all’origine della parola bisciabova, oggi usata in almeno tutta l’alta Italia, Francia alpina e Canton Ticino, apprendevo.
Grazie ai lavori dell’Alinei potei verificare perciò la sopravvivenza della nostra bisciabova, ingiustamente ignorata dai moderni ricettacoli di vocaboli, e con pacifico sollievo stabilire che atto di morte non ci fu né pareva in procinto d’esser redatto.
Lasciando ai veri studiosi la ratifica circa un più consapevole significato del lemma, significato ormai corroborato e infine precisato dalla moderna scienza meteorologica, mi par che possa darsi conclusione a questo considerare.
Come farebbe chi vagheggia sulle forme delle nubi (per restare in ambito meteorologico), mi vien spontaneo osservare che “bisciabova” appare termine ben più evocativo che “tromba d’aria”.
Il riferimento al mondo animale, di così profonda e antica derivazione, oltre a legare nel caso nostro l’umore del cielo alle vicende terrestri, proprio come la bisciabova lega i nuvoli alla superficie terracquea, allude al vivo attorcersi. Una qualità ben adatta al fenomeno, posto che la meteorologia insegna la sua forma esser mutevole e davvero somigliante al guizzare dell’aspide laddove la tromba, ch’io sappia, conserva diligentemente la propria foggia tra le mani del trombettiere. Quanto al rumore prodotto certo somiglia ad uno scomposto sibileggiare o mugghiare che, per fortuna, non appartiene a quanto il musicista estrae dallo strumento, fatta forse eccezione per certi sbilenchi tentativi del neofita.
Al leggitore in animo di ripercorrere le tortuosità che mi hanno condotto a tentar d’esumare la bisciabova s’indirizza la bussola che segue. Troverà sul cammino motivi di far tappa in territori dimenticati ma non per ciò privi di fascinazioni e malìe.
Ai veri studiosi della materia chiedo paterna indulgenza se ho straparlato. Ben lungi da me l’intenzione di vantare una sapienza che non ho, infatti, m’è garbato giocar con la bisciabova come farebbe il buricchio incuriosito dal guizzo della lucciola nella notte d’estate.
IL FINE
La leggenda della bisciabova continua QUI, ad opera di Enzone Zappalà
NOTE
1. Dizionario della lingua italiana. Tommaseo N., Bellini B. et al. 1865. L’Unione Tipografico-Editrice, volume I, parte II
2. Storia della lingua italiana. Migliorini L. 2019. Bompiani (riedizione aggiornata ed ampliata del testo pubblicato nel 1960)
3. Novo dizionario universale della lingua italiana. Petrocchi P., 1894 (fine della compilazione 1891). Fratelli Treves, Milano. Volume I (volume II per la voce tifone)
4. Vocabolario romagnolo-italiano. Morri A. 1840. Ed. Pietro Conti all’Afollo. Faenza.
5. Vocabolario romagnolo-italiano. Mattioli A. 1879. Ed. Tipografia Galeati e figlio. Imola.
6. Dizionario del dialetto veneziano. Boerio G. 1867. Ed. Reale tipografia di Giovanni Cecchini. Venezia.
7. Vocabolario Mantovano-Italiano. Cherubini F. 1827. Ed. G. Battista Bianchi & C. Milano.
8. Dizionario-vocabolario del dialetto triestino e della lingua italiana. Kosovitz E. 1890. Ed. Figli di C. Amati. Trieste.
9. Archivio Glottologico Italiano. Ascoli G. I. 1901. Ed. Loescher. Torino. Vol. XV°.
10. Lettera dell’erudito Apostolo Zeno a Giovan Mario Crescimbeni. 1700.
11. La Galleria di Minerva. 1708. Tomo sesto. Stampata presso Girolamo Albrizzi. Venezia.
12. De corpi marini che su’ monti si trovano. Vallisneri A.1721. Ed. Domenico Lovisa. Venezia.
13. Sopra il Turbine: che la notte tra gli XI, e XII Giugno del MDCCXLIX danneggiò gran parte di Roma. Boschovich G. R. 1749. Stampato presso Pagliarini N. & M. Roma.
14. La Verità del Diluvio Universale. Costantini G. A. 1747. Stampato presso Pietro Bassaglia. Venezia.
15. Il Vortice Aereo, volgarmente detto Scione, o Bisciabova, spigne e non assorbe. Costantini G. A. 1761. Stampato presso Giambatista Novelli.
16. L’origine delle parole. Alinei M. 2009. Ed. Aracne, Roma.
17. Nomi di animali, animali come nomi: cosa ci insegnano i dialetti sul rapporto fra esseri umani ed animali. Alinei M. 2002. Trento, IPRASE.
2 commenti
Complimenti per il tuo raffinato eloquio che mi ricorda il Gianluigi Marianini della mia infanzia televisiva :-) Con massimo rispetto
Grazie Alberto!