26/08/21

Archeologia planetaria: come scoprire gli esopianeti nel 1917

Questo articolo é inserito in "Quattro passi nella storia della Scienza"

Articolo pubblicato il 13/4/2016

Andando ad analizzare una vecchia lastra fotografica del 1917, eseguita per determinare lo spettro della stella di van Maanen (una nana bianca molto vicina), ci si è accorti che vi era già la prova dell’esistenza di un sistema planetario attorno a questo residuo di stella di tipo solare. Quanti ricordi personali…

La stella di van Maanen mi ricorda la gioventù. Eravamo intorno al 1972-73 e si stava completando il telescopio astrometrico da un metro all’Osservatorio di Torino. Il Direttore, Mario G. Fracastoro, era profondamente attaccato all’astrometria stellare, che gli ricordava i tempi gioiosi passati a Swarthmore, a stretto contatto con scienziati del calibro di Sarah Lippincott, Peter van de Kamp e molti altri.

Nel 1960, una lunga serie di lastre fotografiche prese, analizzate con estrema precisione per determinare moto proprio e parallasse di stelle vicine, aveva portato Peter alla conclusione che il moto di alcune stelle appariva perturbato, periodicamente, dalla presenza di grandi pianeti. Una tecnica, questa, che oggi porta realmente alla determinazione di pianeti abbastanza massicci, ma che a quei tempi non era ancora abbastanza raffinata.

I pianeti si erano, alla fine, rivelati come disturbi tecnici dovuti ad alcuni cambiamenti nelle ottiche dello strumento utilizzato e all’introduzione di piccoli errori sistematici. I “pianetoni” di Peter van de Kamp finirono nel dimenticatoio e molti screditarono lo stesso scienziato, dimenticando il lavoro fondamentale da lui eseguito sui moti propri, parallassi stellari e sistemi binari molto stretti.

Comunque, nei primi anni ’70 i pianetoni di van de Kamp avevano ancora molti sostenitori e, come giovane astronomo, avevo avuto l’onore di misurare le lastre “incriminate” con il misuratore del nostro Osservatorio e riuscire a ottenere risultati in accordo con quelli ricavati dagli illustri colleghi d’oltreoceano. Mi ricordo ancora i complimenti ricevuti da Sarah e da Peter che, a partire da  questo piccolo successo tecnologico e matematico, mi avevano stimolato alla ricerca astrometrica che si sarebbe aperta con il nuovo telescopio, in grado di avere una precisione paragonabile a quella del telescopio di Sproul (dove avevano lavorato loro). Insomma, si potevano prendere lastre, misurarle e ridurle per studiare parallassi e altre variazioni del moto anche a “casa nostra”, con l’accuratezza necessaria.

Una delle prime stelle osservate è stata proprio quella di van Maanen...

Va bene… ho parlato un po’ troppo di me, ma i ricordi restano e a volte fa piacere farli tornare a galla.

La stella di van Maanen è un classico esempio di un fossile che torna allo scoperto (e, probabilmente sarà solo il primo di una lunga serie).

Già il fatto di parlare di lastra fotografica ha molto di arcaico al giorno d’oggi (io le usavo ancora…), quando il CCD ha permesso salti qualitativi e quantitativi enormi. Immaginate, poi, uno spettro impresso sul vetro… roba antidiluviana.

Tuttavia, guardando attentamente quella linea scura del 1917 (lo spettro) sono risultati abbastanza chiari dei “buchi”, ossia delle linee di assorbimento. Ricordiamo che si hanno linee di assorbimento quando la luce stellare incontra della materia che blocca il passaggio a una certa lunghezza d’onda (e, se non lo ricordate oppure volete approfondire l’argomento, potete leggere QUI) . Un segno chiaro della composizione chimica della materia che ha assorbito la luce. Nessuno se ne era accorto prima, ma anche se si aveva di fronte un vero fossile tecnologico, le linee di assorbimento erano chiarissime.

Esse si riferiscono a elementi pesanti come il calcio, il magnesio e il ferro. Elementi che non possono essere nati con la stella dato che la loro pesantezza li avrebbe fatti precipitare all’interno. Devono, perciò, provenire dall’esterno.

La lastra fotografica che mostra lo spettro del 1917 della stella di van Maanen. Si notano chiaramente le linee del calcio nella striscia più stretta (il vero spettro, mentre le alter due fasce scure sono due spettri di calibrazione). Fonte. The Carnegie Institution for Science
La lastra fotografica che mostra lo spettro del 1917 della stella di van Maanen. Si notano chiaramente le linee del calcio nella striscia più stretta (il vero spettro, mentre le altre due fasce scure sono due spettri di calibrazione). Fonte. The Carnegie Institution for Science

Sono solo 12 anni che questo processo è stato compreso dagli astrofisici. Si è di fronte a polvere planetaria che ha creato un disco quando essa è passata dalla fase di gigante a quella di nana bianca, cosa che probabilmente capiterà al Sole tra pochi miliardi di anni. La polvere cade sulla superficie stellare e la sporca in modo evidente. Oggi si chiamano proprio “nane bianche inquinate”.

La stella di van Maanen, deve perciò possedere dei pianeti ancora orbitanti perché solo attraverso di loro è possibile mantenere dinamicamente e "fisicamente" un disco di residui planetari in grado di “imbrattare” la piccola stella che ha dato il meglio di sé attraverso l’espulsione di una nebulosa planetaria.

Non sono ancora stati trovati, ma adesso si faranno campagne apposite perché devono esistere!

Insomma, bastava guadare una vecchia lastra e certe caratteristiche di una nana bianca potevano essere capite da circa 100 anni.

Una scoperta di archeologia cosmica veramente eccezionale! e se si pensa che l’archivio che contiene questo spettro contiene ben 250 000 lastre dello stesso tipo… Non dico altro.

Articolo originale QUI

Prima di lasciarvi, vorrei richiamare un vecchio articolo del 2009, in cui raccontavo un po’ meglio la storia dei pianetoni di Peter van de Kamp. Spero di fare cosa utile e gradita.

Un sistema solare in miniatura

Molti anni fa, intorno agli anni ’70, avevo conosciuto a Philadelphia un famoso astronomo, ormai anziano, che era stato uno dei padri dell’astrometria moderna. Attraverso misure precisissime e ripetute nel tempo Peter van de Kamp aveva ottenuto risultati stupefacenti sulle parallassi delle stelle vicine (ossia la loro distanza) e sui loro moti propri. Avevo avuto anche il piacere di misurare qualcuna delle sue celebri lastre fotografiche: una vera emozione.

Tuttavia, il grande astronomo era voluto andare troppo in là, pretendendo che le sue misure così raffinate potessero evidenziare ulteriori movimenti periodici della stella sotto osservazione, sì da far pensare che un compagno abbastanza massiccio disturbasse il moto rettilineo uniforme dell’astro principale.

La stella, se fosse da sola, seguirebbe il movimento rettilineo del suo baricentro (linea tratteggiata). Avendo un compagno di massa non trascurabile è costretta a descrivere anch’essa un moto circolare attorno al baricentro del sistema e quindi il suo moto apparirà curvilineo, spostandosi, negli anni, sopra e sotto l’ipotetica linea retta del baricentro. L’ampiezza e la durata di questo moto apparente fornisce dati preziosi sulla massa e l’orbita del “pianetone” che l’accompagna.
La stella, se fosse da sola, seguirebbe il movimento rettilineo del suo baricentro (linea tratteggiata). Avendo un compagno di massa non trascurabile è costretta a descrivere anch’essa un moto circolare attorno al baricentro del sistema e quindi il suo moto apparirà curvilineo, spostandosi, negli anni, sopra e sotto l’ipotetica linea retta del baricentro. L’ampiezza e la durata di questo moto apparente fornisce dati preziosi sulla massa e l’orbita del “pianetone” che l’accompagna.

Successivamente, si convinse anche che esisteva un disturbo ancora più complesso, dovuto non a uno, ma a due o tre altri pianeti attorno alla stessa stella.

Il metodo è concettualmente semplice. Se la stella fosse da sola il moto del suo centro luminoso dovrebbe coincidere con il baricentro. Se invece esistesse un compagno, il baricentro del sistema (invisibile) conserverebbe il moto rettilineo, ma non la stella che ondeggerebbe rispetto a questa linea ipotetica. La variazione rispetto al moto uniforme indica la massa e l’orbita dell’oggetto (pure invisibile) che la accompagnava nel moto.  

Teoricamente il procedimento usato da Peter era corretto, ma la tecnologia non ancora all’altezza del suo sogno.

Colleghi più giovani, dimostrarono che le variazioni nei movimenti infinitesimali delle stelle studiate dal grande astronomo erano dovute a piccoli, ma non trascurabili cambiamenti del sistema ottico del telescopio. Van de Kamp morì profondamente deluso, a 94 anni, con tutti i suoi “pianetoni” (così venivano chiamati) che si sgretolavano come polvere.

Tuttavia, rimasero i suoi lavori fondamentali sulle stelle vicine e la sua convinzione che molte altre stelle avessero pianeti come i nostri. Aveva soltanto preteso troppo da una tecnica non ancora all’altezza delle sue idee. E’ quindi con grande gioia che oggi posso riportare una notizia storica: un pianeta di tipo gioviano è stato scoperto proprio attraverso le variazioni del moto proprio di una stella vicina a noi, estremamente piccola, un vera miniatura del Sole. Peter starà sicuramente sorridendo.

Ci sono voluti 12 anni di osservazioni continue, ma VB 10 (la stella in questione), alla fine, ha mostrato il suo segreto: un pianeta con una massa circa sei volte quella di Giove che rivolve a una distanza “relativamente” simile a quella del nostro gigante gassoso attorno al Sole. Ho detto “relativamente”, perche se il pianeta è gigantesco, altrettanto non si può dire della stella centrale. Essa è una nana rossa (o meglio nana di tipo M), appena oltre il limite del bruciamento dell’idrogeno, otto centesimi della massa del Sole.

Per molti anni era stata considerata la stella “viva” più piccola mai osservata. Oggi ha un nuovo record: la stella più piccola con un sistema planetario. A parte il super-Giove, tutto è in miniatura. Il “pianetone” (VB 10b) rivolve attorno alla nana in soli 271 giorni terrestri e si trova ad una distanza di 0.36 Unità Astronomiche, non molto diversa di quella del nostro Mercurio. Proprio nelle giuste proporzioni scalando la massa solare a quella di VB 10. All’interno dell’orbita di VB 10b esiste una zona abitabile, che potrebbe ospitare pianeti rocciosi più piccoli. Pensate che per notare le piccole variazioni del moto del baricentro stellare causate dal super-Giove sono state eseguite misure equivalenti a quelle necessarie per misurare lo spessore di un capello umano alla distanza di tre chilometri! Negli anni ’60 van de Kamp non poteva arrivare ancora a questa precisione.

 

 

Chissà come sarebbe felice Peter se sapesse che il satellite GAIA sta usando la "sua" tecnica astrometrica per individuare esopianeti!

Anche Samuel Herrick, negli anni '70 venne deriso per la sua idea di deviare un asteroide e utilizzarlo per scavare un nuovo canale di Panama, ma lo sviluppo tecnologico ha poi dimostrato che tutto ciò non è così fantasioso come può sembrare. Parliamone...

Cos'è il baricentro di un sistema? Lo spieghiamo QUI

3 commenti

  1. Alberto Salvagno

    Ma è proprio necessario che la polvere cada sulla superficie stellare e la sporchi? Non basta che si trovi tra la stella e noi per creare quelle linee di assorbimento?

    Un'altra curiosità: negli anni 60 era già normale usare per le radiografie grandi pellicole e non lastre di vetro.  In fotomeccanica si riusciva a garantire la planarita' di queste attraverso la semplice aspirazione di una pompa. Per l'astronomia non bastava?

  2. Caro Albertone,

    se vi fosse della polvere prospetticamente inserita tra noi e la stella, si sposterebbe a causa del moto proprio diverso. Ci vuole qualcosa che sia sempre localizzata sulla stella.

    Gli strumenti di misura erano predisposti per le lastre e, penso, a causa della loro rigidità. Perché usare pompe  se si aveva una superficie rigida?

  3. alberto salvagno

    Per una questione di fragilità e di spazio d'archiviazione

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