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Scritto da: Guido Ghezzi
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SMONTANDO (E RICOSTRUENDO) LA COSMOLOGIA **
L'attività del James Webb Space Telescope, dopo il primo anno di osservazioni, sta producendo significativi risultati che iniziano a chiarire le modalità del passaggio tra la Fase Oscura dell'universo ed il termine dell'era della Reionizzazione, confermando l'idea di un universo giovane molto dinamico e già notevolmente differenziato nei suoi elementi costitutivi.
E’ eccessivo azzardo considerare l’inizio dell’operatività del James Webb Telescope una nuova fase della cosmologia? Forse sì, rimane il fatto che il nuovo strumento sembra abbia conquistato la posizione di protagonista, seppur senza usurpare la celebrità che l’illustre Hubble Space Telescope s’è guadagnato con lungo, pionieristico e certosino servizio.
Il JWST ha iniziato a lavorare appena un anno fa (il 12 luglio 2022 venne pubblicata la prima immagine risultante dalle riprese del telescopio) e già quanto finora osservato ha intaccato svariate ipotesi sulle prime fasi evolutive dell’universo, novità quasi tutte di natura alquanto sostanziale e che, se corroborate dalle future osservazioni, porteranno a rivedere gli attuali modelli cosmologici.
Il terreno di caccia elettivo di Webb è molteplice ma, al momento, è l’estrema periferia del cosmo che sta fornendo intrigante materiale di studio: oggetti debolissimi ad alto redshift, strutture appena emerse, meglio sarebbe dire ancora parzialmente avvolte, dalle foschie della transizione dalla fase opaca (od oscura) dell’universo alla fase di reionizzazione dell’idrogeno.
E’ importante ricordare che la cosmologia, come molte altre discipline, mira a costruire un quadro conoscitivo globale, un’impalcatura unitaria a sorreggere tutto e pertanto mai deve sfuggire la visuale “dall’alto”: buchi neri supermassicci, evoluzione delle galassie, tasso di formazione stellare e strutture a grande scala sono tasselli di un solo mosaico, sono attori che concorrono ad uno spettacolo unitario, ciascuno con le proprie battute perfettamente inserite in un solo copione.
La comprensione del senso dello spettacolo non può prescindere perciò da uno sforzo collaborativo tra le variegate realtà che affrontano questo campo della ricerca, ove ciascun gruppo di studiosi segue vie estremamente specializzate e s’addentra nelle pieghe dei dati resi disponibili dalle osservazioni nel tentativo di trovare una chiave di lettura utile a fare un passo oltre, seppur piccolo.
Sviluppare questo sforzo collaborativo è compito facile: la condivisione di dati e metodi d’elaborazione è immensamente più semplice e rapida di quanto non fosse solo settant’anni fa e diverrà sempre più agevole in tempi sempre più brevi.
Purtroppo talvolta sembra di constatare che, per ironia della sorte, a tanta sveltezza e facilità di condivisione si sia affiancata altrettanta riluttanza a collaborare, lasciandosi irretire dalla smania di arrivar primi al pubblicare il risultato.
Il rischio che si corre è quello di perdersi la visione “dall’alto” per restare con un caleidoscopio di frammenti che può richiedere un supplementare sforzo interpretativo e di sintesi per definire il quadro generale. Tutto ciò disorienta il profano che è semplicemente curioso di capire qualcosa di più di quel che i notiziari televisivi o le testate a stampa diffondono, spesso con colpevole approssimazione.
Il salto qualitativo ottenuto grazie alla prodigiosa strumentazione di Webb sta fornendo una spinta importante alle conoscenze del cosmo “primitivo”, una messe di nuovi dati che sfocia nel susseguirsi di pubblicazioni ad un ritmo incalzante (più di 750 nel primo anno di osservazioni), al punto che rende arduo analizzarle tutte e non perdere la visione generale di un panorama in rapida evoluzione.
Nel seguito si tenta perciò una sorta di sintesi dei risultati più recenti e pubblicati su diverse testate da vari gruppi di ricerca, si noterà che i rispettivi lavori riguardano le medesime problematiche o problematiche comunque fortemente interconnesse senza una vera e propria condivisione degli sforzi, anzi quasi in reciproca competizione (i programmi di ricerca sono ben distinti anche se sottendono in pratica lo stesso oggetto di studio).
Il gruppo di ricerca EIGER (Emission-line galaxies and Intergalactic Gas in the Epoch of Reionization) il 12 giugno scorso ha pubblicato su “The Astrophysical Journal” ben 3 lavori che concorrono a fornire nuove evidenze sulle modalità secondo cui potrebbe essere avvenuta la ormai familiare “reionizzazione” (Kashino D., Lilly S. J. et al. – EIGER I)1; (Matthee J., Mackenzie R. et al. - EIGER II)2; (Eilers C., Simcoe R. A. et al. - EIGER III)3.
Il programma di ricerca ha usufruito di 116 ore di osservazione tramite Webb, focalizzandosi sugli oggetti ad alto redshift presenti in un settore celeste compreso tra le costellazioni dei Pesci e di Andromeda.
Il metodo utilizzato per indagare le condizioni di ionizzazione dell’idrogeno intergalattico nelle ultime fasi dell’epoca della reionizzazione, (circa 900 milioni di anni dopo il Big Bang) sfrutta fonti di radiazione estremamente antiche e potenti: 6 quasar con redshift compresi tra z=5.98 e z=7.085 (fig. 1) e dei quali sono disponibili informazioni molto precise sulle caratteristiche spettrali delle rispettive radiazioni rilevate nella banda ottica e del vicino infrarosso, ottenute dall’osservazione con il telescopio Keck nelle Hawaii, il VLT dell’European Southern Observatory e il telescopio Magellan a Las Campanas (entrambi in Cile).
I 6 quasar scelti si trovano in zone ad alta densità di galassie con elevato redshift, oggetti annegati in un universo in cui la densità dell’idrogeno neutro stava rarefacendosi sempre più ad opera delle emissioni delle stelle neoformate.
Ciascuno dei 6 quasar funziona come un fascio di luce che illumina gli oggetti posti in prossimità della linea visuale quasar-Terra/JWST; la luce, nell’attraversare volumi di spazio dove il gas intergalattico è ionizzato in vario grado, viene più o meno assorbita e lo studio delle sue caratteristiche spettrali permette quindi di rilevare il grado di ionizzazione del mezzo intergalattico.
Con ardita licenza calando tutto questo nell’Infinito Teatro Cosmico, il quasar rappresenta però solo il faro che illumina una scena invasa da nebbie e fumigazioni, a tratti opaca a tratti limpida dove gli attori non solo a stento si vedono ma sono anche minuscoli e di flebile voce.
Ma l’acutezza dell’occhio infrarosso di Webb li scova, cattura ogni espressione dei loro visi, segue i loro gesti e finalmente dipana la commedia.
Gli sfuggenti attori sono le galassie antiche presenti lungo la linea visuale tra il quasar e Webb, che solo la sofisticata strumentazione di bordo ha permesso di individuare e studiare nel dettaglio, galassie con redshift compreso tra 5.3 e 6.9, già presenti ed attive 900 milioni di anni dopo il big bang.
In termini più specifici si è studiata la trasmissione delle linee spettrali dell’idrogeno circumgalattico e intergalattico nella lunghezza d’onda dell’ultravioletto (linee Lyman α e Lyman β) in funzione della distanza del gas da ciascuna delle galassie: in generale tanto più le linee spettrali Lyα e Lyβ riescono a filtrare attraverso il mezzo intergalattico tanto più quest’ultimo è rarefatto.
La stima è stata fatta osservando galassie con redshift via via più elevati in modo da ottenere una valutazione delle condizioni di ionizzazione del gas non solo a diverse distanze dalle galassie medesime ma anche in epoche sempre più remote, con l’intenzione di rivelare la variazione delle condizioni di reionizzazione dell’idrogeno anche in funzione del tempo.
Lo strumento NIRCam di Webb ha permesso di selezionare ben 59 galassie lontane (con redshift compreso tra 5.3 e 6.9) e a forte emissione ultravioletta (emissione dovuta all’ossigeno doppiamente ionizzato [O III]) situate in prossimità della linea visuale del primo dei 6 quasar (J0100+2802, con z=6,327), di ciascuna galassia sono state definite morfologia e caratteristiche di emissione (fig. 2).
Il risultato ha evidenziato che la trasmissione delle linee spettrali dell’idrogeno presente attorno alle galassie campione segue comportamenti diversi a seconda del valore di redshift della galassia emittente che esso circonda; ma il valore di redshift è legato anche alla “distanza” temporale delle galassie emittenti quindi al loro essere temporalmente più o meno prossime al periodo in cui è avvenuta la reionizzazione.
I dati mostrano 3 diversi comportamenti dell’emissione Lyα (fig. 3), confermati anche da Lyβ:
- per 5.3<z<5.7 la trasmissione aumenta con l’aumentare della distanza dalla galassia (il gas è tanto più rarefatto quanto più è lontano dalla galassia ed il livello medio di ionizzazione è simile a quello di fondo per valori di redshift compresi tra 2 e 3, cioè dell’universo post-reionizzazione, ormai “meno giovane”);
- lo stesso comportamento si osserva per 6.15<z<6.26 (situazione analoga al caso precedente ma immersa nell’alta ionizzazione a grande scala prodotta dalla dominante radiazione del quasar molto vicino - z=6.327 - che prevale sul valore di fondo);
- per 5.7<z<6.14, l’intervallo intermedio ai primi due, compare un comportamento anomalo: la trasmissione aumenta con l’aumentare della distanza dalla galassia, in analogia con il primo caso, poi appare con grande evidenza un picco dopo il quale la trasmissione decresce.
L’anomalia nella trasmissione indicata dai dati nell’intervallo 5.7<z<6.14 viene interpretata come l’effetto dovuto all’emissione delle galassie che determina un livello di trasmissione Lyα ben superiore a quello di fondo e rende lo spazio circostante (ma è più corretto parlare di spazio-tempo circostante visto che l’effetto è esteso su un intervallo di redshift) più “trasparente” alla radiazione. Allontanandosi da ciascuna galassia emittente la radiazione torna a filtrare con gran fatica, avvolta dal mezzo intergalattico non ionizzato.
In estrema sostanza la reionizzazione sembra esser avvenuta ad opera di galassie molto attive, responsabili di alta emissione UV che hanno progressivamente ionizzato il gas circumgalattico, generando gigantesche “bolle” ionizzate che, fondendosi tra loro, hanno chiuso la fase di transizione che ha portato l’universo alla trasparenza (fig. 4).
Una volta individuati gli sfuggenti attori tra il nebulio primordiale è naturale chiedersi quale siano i loro caratteri individuali e soprattutto se vi sia qualche fattore che li accomuni.
Ancora una volta sono i dati forniti dalla strumentazione di bordo di Webb che hanno permesso lo studio dettagliato degli spettri delle galassie emittenti individuate lungo la linea visuale con il quasar J0100+2802; in particolare sono state le misurazioni relative alle righe dell’ossigeno doppiamente ionizzato [O III] a fornire le indicazioni sulle condizioni fisiche degli attori responsabili della reionizzazione (fig. 5).
In sintesi le galassie individuate da Webb ed agganciate alle “bolle” reionizzate si sono rivelate:- relativamente giovani, con età mediamente attorno ai 100 milioni di anni;
- di massa limitata, stimata attorno a 2x108 masse solari;
- con capacità di produrre fotoni ionizzanti più elevata rispetto ai valori finora ipotizzati per le galassie dell’era della reionizzazione;
- con un minor grado di metallicità della fase gassosa rispetto ai valori finora ipotizzati per le galassie tipiche dell’era della reionizzazione.
Nell’ambito del campione studiato (117 galassie) queste caratteristiche sono emerse in modo evidente e sembra possano senz’altro costituire un modello di riferimento per gli oggetti con z ∼ 6, differenziandoli nettamente dalla popolazione galattica dell’universo con z ∼ 2 (universo post-ionizzazione).
Il risultato è importante poiché costituisce una base, sembra molto solida, per approfondire la conoscenza delle modalità di emersione dalla Fase Oscura, argomento di primo piano nella cosmologia. Va sottolineato che il programma di ricerca EIGER è all’inizio dal momento che è stato usato uno solo dei 6 quasar selezionati e si confida in una ulteriore conferma dai dati che NIRCam raccoglierà prossimamente.
E il faro che ha illuminato così potentemente la scena? Il quasar J0100+2802, scoperto nel 2015, è il più luminoso noto tra quelli con z>6 e Webb lo ha studiato a fondo per svelarne i segreti e in particolare evidenziare le caratteristiche del buco nero supermassivo ubicato nella sua regione centrale.
Gli studi precedenti, condotti sui dati forniti da strumentazione basata a terra, hanno stimato una massa di circa 1010 masse solari per questo oggetto che già esisteva in un universo di appena 800-900 milioni di anni, ponendo la questione sulla rapidità del suo accrescimento in un universo così giovane.
L’analisi delle riprese effettuate con NIRCam ha indicato una probabilità estremamente bassa che la luminosità del quasar sia amplificata da effetti di lensing gravitazionale ad opera di grandi masse interposte lungo la linea di visuale tra il quasar e il JWST, fornendo pertanto un decisivo conforto al dato di 1010 masse solari ottenuto con le precedenti stime.
Ulteriori future conferme della presenza di buchi neri supermassicci al centro dei quasar coevi a J0100+2802, attese in ragione del lavoro fatto finora nell’ambito del programma di ricerca EIGER, ribadiranno con forza la centrale questione circa le dinamiche di accrescimento di questi buchi neri e, implicitamente, sull’evoluzione dell’universo giovane.
Nella medesima direzione si sta muovendo un altro gruppo di ricerca (X. Ding, M. Onoue, J. D. Silverman et al.)4 che ha pubblicato a fine giugno su Nature i risultati dell’analisi delle immagini riprese con il portentoso strumento NIRCam di due quasar primordiali, rispettivamente HSC J2236+0032 con z= 6.40 e HSC J2255+0251 con z=6.34, ospitati in due galassie molto deboli, appartenenti ad un universo di appena 860 milioni di anni.
L’eccezionale qualità delle immagini infrarosse fornite dal JWST ha permesso di separare l’emissione proveniente dai due buchi neri centrali, di gran lunga preponderante, da quella molto debole proveniente dalle stelle delle galassie ospite (fig. 6), ottenendo un duplice risultato di rilevante importanza: la stima della massa del buco nero centrale e della galassia ospite.
Per le due galassie è stata stimata una massa di 13x1010 masse solari e di 3.4x1010 masse solari mentre per i rispettivi buchi neri centrali la massa è stata valutata dell’ordine di 1.4x109 e 0.2x109 masse solari, fornendo ulteriori sostegni ai risultati del programma EIGER circa l’enigmatica esistenza nell’universo primordiale di buchi neri supermassicci al centro delle galassie.
Gli autori fanno inoltre rilevare un dato di non secondaria importanza: i rapporti tra le masse galattiche ospite e le masse dei relativi buchi neri centrali sono prossimi al valore 100, dato del tutto comparabile con i valori del medesimo rapporto per le coppie galassia-buco nero centrale presenti nell’universo recente.
Il ritratto dell’universo giovane sembra perciò un dipinto leonardesco, con più di un enigma a fomentare nuove domande e ulteriori dubbi, già nell’aria da qualche tempo ma ora sempre più pregnanti. E il quadro va ancora arricchito con quanto emerso da un altro programma di ricerca denominato ASPIRE (A SPectroscopic survey of biased halos In the Reionization Era), risultati pubblicati in due distinti lavori (J. Yang, F. Wang et al.)5; (F. Wang, J. Yang et al.)6 sull’Astrophysical Journal Letters a fine giugno.
La prima pubblicazione riprende l’argomento dei buchi neri centrali supermassicci, ancora una volta analizzando le riprese nell’infrarosso eseguite con lo strumento NIRCam del JWST di 8 quasar con redshift superiore a 6.5 e quindi immersi nell’epoca della reionizzazione.
In sostanza i risultati ribadiscono l’esistenza nell’universo giovane di galassie ospitanti buchi neri centrali supermassicci, con masse comprese tra 0.6x109 e 2x109 masse solari per gli 8 quasar studiati, in aggiunta evidenzia come l’esistenza del buco nero supermassiccio centrale regoli il tasso di formazione stellare della galassia ospite attraverso l’emissione di potenti getti mentre continua il processo del proprio accrescimento, in analogia con quanto osservato nell’universo più vicino.
Il secondo articolo comunica la scoperta di una struttura a grande scala nell’universo già nello stadio di emersione dall’età oscura, quando esso datava appena 830 milioni di anni.
Le riprese effettuate nell’infrarosso con il consueto NIRCam hanno permesso di riconoscere un “filamento” di galassie esteso per 3 milioni di anni luce (fig. 7). Alla struttura appartiene il quasar ad alta luminosità J0305–3150 e ben 10 galassie a forte emissione di [O III] e bassa metallicità, tutti oggetti con z∼6.6. Il quasar è costituito da una galassia attiva ospitante un buco nero supermassiccio (di massa stimata in circa 109 masse solari).
Il risultato è scaturito dalla prima parte del programma osservativo in cui il JWST si è limitato ad indagare un singolo campo osservativo nell’intorno del quasar J0305–3150, primo dei 25 totali previsti dal progetto ASPIRE.
In questo primo stretto campo osservativo NIRCam ha scovato ben 41 galassie emittenti, alcune assiepate in 3 distinti addensamenti a diverso redshift: oltre alle galassie del filamento altre 13 sono raccolte in un due gruppi rispettivamente con z∼6.2 e z∼5.4 (fig. 8).
La struttura filamentosa a z=6.6 è stata ricostruita in 3 dimensioni, completandola con i dati forniti da ALMA che nel 2022 ha individuato ulteriori 3 galassie a forte emissione (in questo caso si tratta di carbonio ionizzato, [C II]), di cui solo una, C2, distinta da NIRCam (C1 è ubicata troppo a ridosso del quasar e C3 dovrebbe essere una galassia oscurata da polveri). L’estensione dell’intera struttura è stata stimata in circa 8.0 Mpc (co-moventi) lungo la linea di visuale e 4.1 Mpc (co-moventi) sul piano perpendicolare alla linea di visuale (fig. 9).Queste stime dimensionali determinano un valore di densità galattica tra i più alti noti nell’universo primordiale, suggerendo che il filamento sia stato il possibile progenitore di un più recente cluster galattico di notevole massa totale.
Come mostra l’istogramma di fig. 10, tra i 3 citati raggruppamenti galattici il più numeroso è quello concentrato attorno al quasar, dove ben 12 galassie hanno redshift compreso tra 6.61 e 6.67 (barra in tratteggio rosso e adiacente in verde). Di queste 12 galassie è stata calcolata la velocità lungo la linea di visuale e rispetto al quasar, ottenendo per 10 di esse valori inferiori a 103 km/s e distanze dal quasar tra 10 e 550 kpc (in proiezione lungo la linea visuale). In conclusione l’analisi dei dati forniti nel primo anno di osservazioni condotte tramite il JWST in regioni dello spazio profondo su oggetti celesti con elevati valori di redshift (z ≥ 6) inizia a chiarire alcuni aspetti delle prime fasi evolutive dell’universo, in particolare quelle in cui esso iniziò ad emergere dall’Età Oscura, in sintesi:
- la reionizzazione sembra essere avvenuta per il progressivo dilatarsi di “bolle” di spazio reso via via più trasparente grazie alla radiazione proveniente dalla popolazione stellare di galassie giovani (età attorno ai 100 milioni di anni), non eccessivamente massive (massa attorno a 2x108 masse solari) e di ridotta metallicità ma con elevato tasso di neoformazione stellare;
- trova conferma l’esistenza di buchi neri supermassicci (di massa dell'ordine del miliardo di masse solari) al centro di galassie attive nell’universo giovane (800-900 milioni di anni dopo il Big Bang), elementi che si dimostrano in grado di influire sensibilmente sull’evoluzione della galassia ospite;
- nell’epoca della reionizzazione l’universo si presenta tutt’altro che monotono, in base a quanto rilevato dal JWST e da altra strumentazione si riscontra una notevole complessità anche limitandosi a ristrette regioni di spazio, complessità dovuta alla quantità e tipologia di galassie presenti, all’esistenza di forti emittenti sia a [O III] che a [C II], di galassie sia luminose (nell’ultravioletto) che oscurate da polveri;
- in questa fase l’universo già contiene importanti strutture a grande scala, tra cui addensamenti di galassie in forma filamentosa, presumibilmente antenati dei grandi cluster galattici noti nell’universo più recente.
Riferimenti bibliografici:
- https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4357/acc588
- https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4357/acc846
- https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4357/acd776
- https://www.ipmu.jp/en/20230629-JWST
- https://iopscience.iop.org/article/10.3847/2041-8213/acc9c8
- https://iopscience.iop.org/article/10.3847/2041-8213/accd6f
1 commento
Grazie, un efficace resume.
Marco Di Maio