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Un’estate lontana, stremato dal vuoto che s’allargava nei giorni della pausa scolastica, scelsi un quaderno e iniziai a metter parole sulle pagine. Quelle sbilenche frasi, nate senza previo disegno e con il banale scopo d’ingannare il tempo, devono avermi scambiato per uno scrittore tormentato dal rovello. Han preso a moltiplicarsi, a proporsi impazienti d’aver una collocazione, talvolta nella pace notturna, talaltra nel mezzo di affollate stanze. Una scomposta insistenza che non seppi arginare sul nascere né convincere a cercar miglior artefice. Mi risolsi a concederle sfogo, pur avvisandola, quella importuna marmaglia vociante, che stava affidandosi ad un intermediario di scarsi mezzi.
Forse impietosite dalla pochezza dei primi risultati, credo quelle parole abbian deciso per uno spontaneo soccorso all’inetto agente. S’impegnarono a ordinarsi, mettendo alla porta intrusi indesiderati ed invitando invece i dimenticati, gli spersi senza dimora, gli espulsi e i solitari. Ancora oggi, dopo tanto esercizio, mi rappresentano sovente la loro fatica nel raddrizzare quanto di sghembo metterei su carta, pur manifestando, bontà loro, che qualche progresso son riuscito a farlo.
Del resto ormai son rassegnato, quell’antica mia pulsione ha dato la stura a sviluppi insospettabili e dove per altri sarebbe stata forse questione di una momentanea comparsa a me è toccata questa sorta di servaggio, cosa in fin dei conti neppure troppo sgradita, considerato che quella preistorica noia oggi se ne sta per lo più in compagnia di qualche gatto pigro, che ben sa come trattarla.
(Guido Ghezzi)
Prefazione (di Vincenzo Zappalà)
I MIEI UMANI (di Gatto Nelson)
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